Bile porta i lettori «In Colombia con Gabriel García Márquez»

Bile porta i lettori «In Colombia con Gabriel García Márquez»
di Alessandra Farro
Venerdì 17 Settembre 2021, 16:16
5 Minuti di Lettura

Alberto Bile, classe '87, napoletano, è un profondo amante delle parole e, fin da quando ha mosso i primi passi nel mondo della letteratura, ha coltivato una passione per un autore, in particolare, Gabriel García Márquez. Report, scrittore e traduttore, Alberto viaggia in giro per il mondo per raccontare la sua visione dei luoghi, il suo ultimo lavoro, "In Colombia con Gabriel García Márquez", edito da Giulio Perrone, parla, appunto, del suo primo amore letterario, che presenta così:

«Lo scrittore Gabriel García Márquez promosse trentadue sollevamenti armati contro la nostalgia e li perse tutti. Ebbe diciassette libri da diciassette diversi demoni, che fecero la loro comparsa uno dopo l’altro lo stesso giorno in cui aprì gli occhi sul mondo. Sfuggì a quattordici mandati d’arresto, a settantatré colpi di Stato e a un plotone di censori. Sopravvisse a raffiche di accuse che sarebbero bastate ad ammazzare una stirpe. Rifiutò distinzioni da cento presidenti della Repubblica e si ubriacò di whisky con altri trecento. Divenne, talvolta a sua insaputa, comandante generale delle Forze rivoluzionarie, con giurisdizione e autorità da una frontiera all’altra, e l’uomo più temuto e più sedotto dal potere, ma non appose mai la sua foto su una tessera di partito. Declinò il frac vitalizio che gli porgevano le accademie della lingua, e visse fino alla vecchiaia delle parole che il nonno gli mostrava sul dizionario nella sua casa di Aracataca».

Cosa ti ha spinto a scrivere di Marquez?
"Sono varie le risposte possibili. Prima ti devo raccontare il motivo per cui sono andato in Colombia, un'opportunità inattesa che ho ricevuto dall'università di Bologna dove studiavo al tempo, e a cui ho detto subito di sì, proprio per via di Marquez, voleco vedere i luoghi di cui avevo letto. Leggere 'Cent'anni di solitudine' è una delle cose più importanti che mi siano successe in vita. Che, poi, la prima volta che l'ho letto non mi è neanche piaciuto, ma la seconda me ne sono innamorato e adesso sono arrivato alla sesta lettura. L'ho riletto anche quando sono andato in Colombia, apposta per vedere quei luoghi. Sono andato ad Aracataca, il paesino in cui è nato, ho girato buona parte di Macondo. Per me è stato una sorta di pellegrinaggio, per alcuni versi sorprendente, per altri deludente, anche se ho ridimensionato la delusione in questo libro".

Come si struttura un romanzo di viaggio?
"In genere mi informo sul luogo, viaggio, prendo appunti e scrivo. Con Marquez, per forza di cose, avrei voluto fare un secondo viaggio in Colombia per ultimare alcune ricerche, ma c'era il Covid e quindi il libro è stato frutto di un approccio un po' diverso dallo schema classico. È stato un incorcio fra la vita dell'autore e le sue opere, che poi sono due elementi difficilmente scindibili, a cui ho aggiunto una piccola parte delle mie personali esperienze.

In alcuni capitoli ho provato a immaginare Marquez e la sua banda, in altri ho pensato di farlo rincontrare con Kapuściński, suo amico, in altri ancora ho cercato di trovare assi tematici e il modo in cui si sono evoluti nella vita di 'Gabito', come viene chiamato in Colombia".

Che studio c'è dietro?
"Uno studio matto. Per mesi ho letto per buone 8 ore al giorno tutto ciò che ha scritto: dalle prime poesie da quattordicenne fino all'ultimo libro da ottantacinquenne, passando per i suoi articoli, dai più conosciuti ai più sconosciuti. Ho letto tutto, con un quaderno dove prendere appunti sempre con me ed evidenziatori per creare dei percorsi possibili, che poi sono diventati i capitoli in cui è diviso il libro".

Quindi come sono divisi i capitoli?
"Il libro si può idealmente dividere in due parti. La seconda è più lineare, racconta i sette luoghi di Marquez. La prima parte, invece, è più complessa, perché il confine di ogni capitolo è incerto, non è netto. Ho voluto approfondire aspetti necessari per capire Marquez, il ruolo della politica nella sua vita, e dell'amicizia, che è per lui molto più importante che per altri scrittori. I suoi capolavori nascono dal cazzeggio con gli amici e lui diceva di scrivere per farsi volere più bene dagli amici. Leggendolo si capisce che è vero. Poi c'è la nostagia. In 'Cent'anni di solitudine' e ne 'L'amore ai tempi del colera' la nostalgia compare rispettivamente trenta e venticinque volte. Tutte le sue opere sono nostalgiche. Forse perché ha vissuto lontano da casa, tra l'Europa e il Messico, ma è anche vero che fin da giovane, quando ancora viveva in Colombia, scriveva di vecchi. Sembra che sia nato con la nostalgia di quello che sta vivendo".

Nel libro parli anche del legame di Marquez con Napoli.
"Nello studiare Marquez, piano piano, vedo spuntare Napoli. Lui la nomina poco più che ventenne, perché vede un film di De Sica. Poi, quando parla dell'alluvione a Barranquilla dice che gli abitanti ormai si sono affezionati ai torrenti come i napoletani al Vesuvio. Napoli entra nelle sue opere prima ancora che lui l'abbia visitata, cosa che farà a metà degli anni '50. Della visita sappiamo per due motivi: la prefazione a un libro di Álvaro Mutis, in cui elenca i posti in cui sono stati insieme e tra questi c'è anche Napoli; e la descrizione di un viaggio in Germania dell'Est, in cui paragona un'immagine triste a quella di un vicolo napoletano, dove vede calare una bara con la fune dal terzo piano. Immagine che, poi, finirà nei 'Dodici racconti raminghi'.

Marqez scrive per farsi volere bene dagli amici, tu perché scrivi?
"Ci sono scrittori che scrivono per lasciare qualcosa che vada oltre la propria vota, io scrivo per vivermi bene questa e poter dedicarmi ai viaggi, come questo nei luoghi di Marquez".

© RIPRODUZIONE RISERVATA