Franco Arminio, Sacro minore: «La vera poesia viene dal corpo di chi scrive»

Le nuove pagine scandiscono le tappe di un percorso di ascolto, osservazione, identificazione, interesse, dialogo e confronto con la realtà e il mondo

Franco Arminio
Franco Arminio
di Generoso Picone
Giovedì 9 Marzo 2023, 12:33
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Qualche anno fa - era il 2019, l'altezza cronologica di un tempo che fratture e traumi collocano a una distanza sideralmente larga da oggi - Franco Arminio affermò di credere che non esisteva un'idea di poesia in grado di mettere d'accordo tutti. In fondo aggiungeva «non è importante neppure trovarla questa idea», perché «le poesie vengono dal corpo di chi le scrive e prima ancora dall'aria in cui girano tante cose, le nuvole e le parole degli uomini». Stabiliva in tal modo i confini del territorio emozionale, fissava il teatro sentimentale e la scena empatica su cui lui si andava a collocare e dove sarebbero poi ricaduti i suoi Studi sull'amore del 2022, anche rischiando di assumere il profilo di una controversa figura sacerdotale che recita e condivide i suoi versi esibendo capacità addirittura catartiche verso un pubblico sempre più ampio e partecipe. Una declinazione pop della funzione del poeta, da Arminio interpretata dichiarando che «la poesia, cioè l'arte di cantare la bellezza e il terrore di essere al mondo, parteggia per la ricerca di nuovi modi di percepire noi stessi e gli altri» e soltanto «l'amore è la religione che ha per altare i nostri corpi, è il nostro contributo alla festa di essere al mondo». Come sosteneva in quel Manifesto delle intimità provvisorie su cui reggeva l'impianto di L'infinito senza farci caso, il libro del 2019.

Ora, la sensazione che si percepisce dai brani di Sacro minore (Einaudi, pagine 153, euro 16) è di avere di fronte un testo in linea con questa sua idea di religiosità.

Sono pagine che, nella misura di frasi lapidariamente scolpite o di quartine e ottave che si consegnano come paradigmi narrativi, non hanno l'ambizione di interrogare lo spazio della trascendenza, di disporsi lungo l'orizzonte di senso abitato dal divino, di ingaggiare con Dio un confronto dialettico: scandiscono invece le tappe di un percorso di ascolto, osservazione, identificazione, interesse, dialogo e confronto con la realtà e il mondo, quello esterno e l'altro più importante e vero che abita le profondità dell'animo. «Sacro non è raccontare/ ciò che sai/ ma quello che ti commuove/ e non sai perché», scrive Arminio avviandosi all'attraversamento di luoghi materiali e intimi, concreti e inconsci, in un paesaggio che si distende dalle memorie dell'infanzia ai contorni di colline e monti della sua geografia, da Aliano, Bisaccia, Craco o San Fele al Formicoso salvato dalla discarica e all'Isochimica avvelenata di amianto, dalle struggenti immagini del tavolo dove il padre Luis amava poggiare la testa e addormentarsi - «Sacro era mio padre ma io non lo sapevo» - al ricordo commosso della madre alla quale rivolge l'attestato di massimo amore: «Sacro è che in questo mondo sia esistita mia madre». 

I suoi sono haiku teofanici, raccolgono le manifestazioni del divino nel tentativo di «rigare la vita con la scrittura». Salvo accorgersi che «la scrittura è un chiodo di pane/ non scalfisce nulla,/ si sbriciola tra le mani» e allora non resta che «scavare nella lingua,/ scavare nel silenzio,/ scavare nella mente,/ scavare senza aver trovato niente/ e dopo aver scavato/ restare nell'aria, fermo e illuminato». 

La dimensione del sacro che indaga Arminio risponde allora all'intento di delinearlo «unicamente con quello che c'è intorno a noi: un filo d'erba, una lumaca, una radiografia. Così dicendoci che non solo «è possibile ripensare il sacro, ma anche imparare a pregare nuovamente», spiega Andrea Di Consoli nella quarta di copertina. Certo. Ma nel suo breviario, nel tono che rimanda a quello di Erri De Luca in Considero valore, nelle accensioni che restituisce, nelle pacatezze a cui tende, Arminio compie anche il gesto fondativo di una comunità a venire. Specie quando decreta che «Sacro è ridursi a poche cose da perdere o da salvare», lui guarda alla nudità essenziale e all'autenticità assoluta dell'homo sacer di Agamben, alla capacità di intessere una relazione pressoché eversiva tra linguaggio e mondo, di recuperare la possibilità di intrecciare gli ambiti dell'umano e del divino nella trama di una spiritualità a cui attribuire un obiettivo ontologico: di riappropriazione di un significato, di un ricongiungimento con la potenza espressiva originaria, di un riconoscimento del sistema dei valori che spende in un kantiano cielo stellato dominato dalla falce della luna di un Sergej Aleksandrovic Esenin della postmodernità. 

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Comprendere che «Sacro è che siamo tutti appesi a un filo/ e il filo non è appeso a niente» dà il senso di una limitatezza e di una precarietà incombenti che però può rappresentare il punto di leva da cui agire e riscattarsi. Con quest'assunzione di coscienza Arminio invita a ripensare i modelli dell'esistenza e costruire una sacralità laica e immanente, che alimenti l'ansia rabbiosa e concreta: «Sacra e stronza la vita,/ vetro rotto nella carne,/ chiodo arrugginito e tu,/ fiore selvatico dell'Appennino/ mille volte morto, rifiorito». 

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