Giuseppe Lupo e La modernità malintesa: se la fabbrica non c'è più

Giuseppe Lupo racconta 70 anni di parabola dell'industria italiana

Giuseppe Lupo
Giuseppe Lupo
di Generoso Picone
Domenica 4 Giugno 2023, 10:30
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La linea lungo la quale Giuseppe Lupo dispone la controstoria dell'industria italiana raccontata attraverso la letteratura, inizia in viale Sarca a Milano, la strada che un tempo portava alla periferia delle grandi fabbriche oggi dominata dalla vecchia torre di raffreddamento della Pirelli ingabbiata in una struttura di vetro e metallo, e ha il suo approdo al culmine della collina di Posillipo, da dove lo sguardo impatta con il deserto di ruggine e rotami, cilindri ammaccati e ponteggi abbandonati, residui del colosso siderurgico di Bagnoli. La modernità malintesa così si intitola il saggio (Marsilio, pagine 262, euro 20) declina il paradigma che spazia tra questi due poli decisamente simbolici. Viale Sarca «può essere assunto a chiave di lettura del tempo che stiamo attraversando», spiega lo storico della Letteratura all'università Cattolica di Milano e narratore di buona grana, perché qui il paesaggio da una sequenza di capannoni e officine si è ora trasformato in una quinta di atenei, teatri, centri direzionali, sedi di multinazionali. Dall'altra parte, invece, sulla spianata di Bagnoli sembra essere appena planato l'Angelus Novus di Paul Klee a cui Walter Benjamin assegnava il ruolo di «terribile e rassegnato testimone della tragedia che il progresso si porta in dote».

Insomma, Lupo disegna un percorso novecentesco che ha agli estremi la vita, nel suo continuo scorrere e modificarsi, e la morte, nel cimitero di un'area dove a stento abita la memoria.

La sua è una ricognizione ricca e documentata che convoca Vittorini e Testori, Fortini e Mastronardi, Calvino e Pasolini, Levi e Volponi, muovendo dal tramonto della civiltà contadina all'avvento dell'industrializzazione, dalle speranze utopiche agli incubi distopici: attraversa storie e geografie letterarie per rintracciare gli effetti sulla pagina del rapporto sospettoso, euforico, straniato e conflittuale tra uomini e macchine. «In questo cercare strenuamente il punto d'incontro tra i lasciti di un Novecento industriale e i suoi riverberi nella vita culturale e morale della nostra nazione avverte sta il cuore del discorso. Che vorrebbe anche essere una riflessione su come le trasformazioni antropologiche non siano state comprese appieno nel secolo scorso e oltre, fino ai nostri giorni».

L'arco cronologico disegnato da Lupo evidenzia un cosiddetto periodo aureo tra il 1934 e il 2002. Sono anni dalla forte cifra napoletana, perché nel 1934 Carlo Bernari pubblica Tre operai e nel 2002 esce La dismissione di Ermanno Rea. Da un lato c'è la lavanderia di Teodoro, Anna e Marco; dall'altro lo stabilimento siderurgico di Bagnoli dove Vincenzo Buonocore ha il compito di smontare i pezzi venduti ai nuovi proprietari in Cina. In mezzo quasi 70 anni che sono iniziati con il tentativo di sostituire nell'immaginario narrativo la città della cartolina e del colore locale, e che sono terminati con il fallimento di una idea di comunità fondata sull'etica e sulla responsabilità del lavoro. Lupo sottolinea che i luoghi dei romanzi di Bernari e Rea, esasperando il contrasto tra paesaggio naturale e paesaggio artificiale, «svolgono la funzione di palcoscenico in cui registrare l'avvento e l'agonia della modernità, in una altalena che vede prima l'affermarsi della civiltà tecnologica come soddisfacimento dei bisogni primari, poi le operazioni di smontaggio degli impianti».

Superato questo settantennio, ci sono state ulteriori prove di rappresentazione e autorappresentazione della realtà industriale, da Mammut di Pennacchi a Non è un pranzo di gala di Prunetti, passando per Di Ruscio, Guerrazzi e Di Ciaula: però La dismissione di Rea per Lupo chiude un cerchio. Sfugge al canone dell'impossibilità di poter raccontare il mondo della fabbrica se non lo si conosce davvero in quanto operai - come sosteneva Bianciardi - e a quella chiusura in se stesso che rilevava Ottieri rende muti: va oltre e stabilisce il punto di approdo di un tentativo di fare i conti con la modernità ribadendone l'esito irrisolto.

Perché se nella sua fase attiva l'altoforno di Bagnoli aveva dato forza all'interrogativo «Dove si trova la vera Napoli?», che Lupo intesta alle pagine di Prisco, una volta spento l'impianto dell'Ilva pone una questione di fondo che supera il limite cronologico novecentesco. Chiede: dov'è il progresso? «L'età della dismissione» può davvero annullare il valore della fabbrica come motore di cambiamento? Basta il realismo liquido dei capannoni industriali tecnologicamente trasformati?

Lupo risponde convinto che dal 900 mai concluso sarebbe invece opportuno recuperare argomenti e problemi che proprio la letteratura continua a porre, in un tempo che si dice post o iper moderno ma che del moderno forse non ha ancora compreso bene i caratteri essenziali. 

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