Spinotti: «I miei set a Napoli da De Crescenzo a Sting»

Le memorie di uno dei più grandi direttori della fotografia del cinema mondiale

Una scena del film Bellavista
Una scena del film Bellavista
di Ugo Cundari
Venerdì 23 Febbraio 2024, 10:00
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L'ultimo film di Dante Spinotti, uno dei più grandi direttori della fotografia del cinema mondiale, nato 80 anni fa a Tolmezzo, provincia di Udine, uscirà a novembre negli Stati Uniti, «Alto knights», un gangster movie anni 50, con la regia di Barry Levinson e Robert De Niro del doppio ruolo dei boss Vito Genovese e Franck Costello l'un contro l'altro armato. Una carriera, quella di Spinotti, due candidature agli Oscar (nel 1998 per «L.A. confidential» e nel 2000 per «Insider», iniziata a Napoli, racconta lui al telefono, come ha già fatto in Il sogno del cinema, pagine 320, euro 21), autobiografia scritta con Nicola Lucchi.

«Era il 1973 e per il programma Rai "Parlare, leggere, scrivere", curato da Tullio De Mauro e Umberto Eco, con la troupe andammo a girare al Pallonetto.

A un certo punto ci cadde addosso di tutto, dai balconi ci lanciavano sacchetti e pietre. Scoprimmo che non c'era stato un accordo preventivo tra gli organizzatori e i capi quartiere. Quando l'accordo fu trovato girammo in pace». Spinotti ricorda che «tra i vicoli trovavi ragazzini che giravano nudi, poi svoltavi l'angolo e incontravi uomini vestiti di tutto punto con un'aria da gran signore capaci di padroneggiare quattro lingue».

Quanto è cambiata la città rispetto a quella che ha fotografato per il documentario «Posso entrare? Un'ode a Napoli» di Trudie Styler, girato tra l'inizio e la fine della pandemia? «Tanto, come è cambiato il mondo, ma c'è quel nocciolo inscalfibile che è rimasto sempre lo stesso. Non so dire di cosa si tratta ma so dire che effetti ha sulla gente, ed è un effetto magico. Entrare in sintonia con la città significa abitare un territorio magico, entrare in una dimensione fantastica».

Dopo la prima volta partenopea Spinotti entrò nel giro di Renzo Arbore e nel 1984 ebbe la possibilità di lavorare nel film «Così parlò Bellavista» di Luciano De Crescenzo. «Fu un'esperienza serena in un set allegro, per un film spensierato diviso tra comicità e filosofia grazie alla creatività di un Socrate dell'ironia come Luciano». Poche settimane dopo Spinotti fu chiamato da Roberto Malenotti per «Cenerentola 80», pellicola a basso budget. Quando girò voce che si doveva girare una scena con pochi quattrini e molti figuranti vestiti da nobili, «ci ritrovammo decine di elegantissime comparse pescate dall'alta e media borghesia locale, o da certa aristocrazia napoletana in decadenza, vestiti con i propri abiti, in una sfilata di non addetti ai lavori magicamente finiti a recitare nel ruolo di loro stessi e quasi gratis».

Tra un ricordo e l'altro a Spinotti, che di mestiere crea la luce nei film, viene in mente una definizione della magia di Napoli, ed è lo spettacolo della sua luce. Uno degli ultimi giorni della fine delle riprese del docufilm della moglie di Sting, Spinotti stava tornando nel suo albergo sul lungomare. «D'un tratto mi accorsi di quello che avevo davanti. Il cielo e il mare formavano una tavolozza dove un pittore pazzo, forse Dio, aveva mescolato i colori. C'erano le nuvole rosse a infuocare l'orizzonte. Il Vesuvio era adombrato da nuvole nere. In cielo si allungavano lingue arancioni e, lontano, si intravedeva un arcobaleno. Dove riuscivano, i raggi del sole penetravano tra le nuvole illuminando a sprazzi il blu del mare. Quel giorno ho assistito a una magia naturale, poteva succedere solo a Napoli».

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