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Virginia Woolf, Scritti sull'arte: «Le parole sono impure, molto meglio la pittura»

Nonostante i numerosi studi e le varie pubblicazioni sulla produzione artistica di Virginia Woolf, non c'era ancora un libro che raccogliesse i suoi testi sull'arte

Virginia Woolf
Virginia Woolf
di Lorenza Fruci
Articolo riservato agli abbonati
Giovedì 26 Gennaio 2023, 11:00
5 Minuti di Lettura

«Per un singolo individuo salire quelle scale e varcare quelle porte è facile quanto per una sardina guizzare fuori dal banco e unirsi ai liberi passatempi dei delfini»: le scale e le porte citate sono gli ingressi ai musei, descritti da Virginia Woolf (1882-1941) nell'articolo «Quadri e ritratti» pubblicato sulla rivista londinese «The Athenaeum» nel 1920. La spinosa questione dell'appeal dei musei è datata e la scrittrice lo testimonia con ironia in questo e altri testi dedicati all'arte, tradotti e pubblicati in Italia per la prima volta da Bizzarro Books nel libro Scritti sull'arte. In queste pagine Woolf non lesina schiettezza nel descrivere i tentennamenti degli inglesi nel «rimandare il terribile momento in cui toccherà entrare nella galleria e farsi un'opinione delle opere esposte» e nell'apostrofare il «dover guardare i quadri in compagnia di un pittore» come la «più atroce delle punizioni».

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Sincera, sagace, lucida, dalla lettura dei suoi scritti sull'arte si ricompone il puzzle del suo pensiero, che ne affiora coerente e attuale. Dalla «diffusa avversione degli inglesi per i quadri», ai linguaggi delle diverse arti che possono essere respingenti, fino all'universale punto di caduta delle mostre collettive in cui «tutto ciò che vi è di buono amplifica la mediocrità dei pezzi più deboli», nelle sue riflessioni troviamo il pensiero di una delle animatrici del Bloomsbury Group, un'intellettuale impegnata nei dibattiti dei suoi contemporanei sulle arti, capace di interpretare i tempi e la società nelle sue molteplici sfaccettature. 

Nel saggio Quadri del 1925 (pubblicato postumo nel 1947) Woolf indaga «gli amori delle arti», quali «tentativi di seduzione tra la musica, le lettere, la scultura e l'architettura» e come si siano influenzate a vicenda. Definisce la pittura come «il silenzio degli artisti che non si esprimono con le parole» e i bravi scrittori come «grandi coloristi». Scrive che i pittori hanno il «potere della suggestione, inconfutabile contro l'inadeguatezza delle parole», ma tuttavia perdono i loro poteri non appena tentano di comunicare con le parole, infatti «se fosse dipinto, l'usignolo di Keats diventerebbe muto». D'altro canto, «se tutti i quadri moderni andassero distrutti, ad un critico del XXV secolo basterebbero le sole opere di Proust per desumere l'esistenza di Matisse, Cézanne, Derain e Picasso». Eppure uno scrittore per essere grande «ha bisogno di un terzo occhio in grado di correre in soccorso degli altri sensi in affanno» perché la scena deve essere «sempre dominata da un'emozione che non ha nulla da vedere con lo sguardo».

La sintesi del suo pensiero sul rapporto, anche personale, tra scrittura e arti arriva nel 1934 nel saggio Walter Sickert. Una conversazione in cui Woolf scrive «le parole sono uno strumento impuro: molto meglio essere nati nel silenzioso regno della pittura». In questo stesso testo analizza le opere di Sickert, definendolo «eccellente biografo» perché «guardare un suo ritratto è come leggere un'intera vita», e nelle due introduzioni ai cataloghi della sorella pittrice Vanessa Bell (del 1930 e del 1934) scrive dei suoi quadri che «ci attraggono e ci costringono a fermarci», aggiungendo che non la tradiscono e soprattutto non ci fanno chiedere se a dipingerli sia un uomo o una donna. Sulla condizione delle donne torna anche nel testo Quadri e ritratti criticando l'assenza di ritratti femminili nella National Portrait Gallery, facendoci ritrovare la Woolf di Una stanza tutta per sé. 

Attenta osservatrice delle evoluzioni, non le sfugge lo sviluppo del cinema come nuova arte in cerca di codifica, a cui dedica un saggio nel 1926 pubblicato sulla rivista londinese «The Nation and Athenaeum». Ammette che «sulle prime, l'arte cinematografica sembra semplice, persino stupida», ma poi ci mostra «la vita quando non vi prendiamo parte» e tra i suoi mezzi ha «qualche residuo di emozione visiva inutile sia al pittore sia al poeta» che può ancora sfruttare.

Non mancano riflessioni sul ruolo dell'artista nella società nel testo L'artista e la politica del 1936, in cui Woolf evidenzia che se per gli scrittori è scontato che «si interessino di politica», anche i pittori non possono che vivere in relazione con la società e le sue dinamiche, sia per la loro stessa sopravvivenza che per quella della loro arte.

Nonostante i numerosi studi e le varie pubblicazioni sulla produzione artistica di Virginia Woolf, non c'era ancora un libro che raccogliesse i suoi testi sull'arte. E questa pubblicazione si colloca in un più ampio interesse culturale che vede la riscoperta dello spirito che animò Bloomsbury, come dimostra anche la mostra «Virginia Woolf e Bloomsbury. Inventing» Life al Museo Nazionale Romano Palazzo Altemps a Roma (fino al 12 febbraio 2023), in cui si celebra per la prima volta il luogo dove si sono sperimentate forme di vita e di pensiero nuove che cambiarono i principi vittoriani e il forte spirito patriarcale di cui era ancora intriso il ventesimo secolo. Di questo cambiamento, così come si legge tra le righe della sua analisi del rapporto tra arti e società, Virginia Woolf è stata una delle fautrici. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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