Disabili, vivere al Sud riduce i diritti a un quinto

Disabili, vivere al Sud riduce i diritti a un quinto
di Marco Esposito
Venerdì 4 Giugno 2021, 00:00 - Ultimo agg. 07:03
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Un passo avanti e uno indietro. Il cammino verso un’Italia di diritti senza discriminazioni per residenza si conferma accidentato. Ne ha scritto, sulle colonne di questo giornale, il presidente di “Tutti a scuola” Toni Nocchetti, con un’accorata (e documentata) lettera aperta alla ministra per le Disabilità Erika Stefani. I divari territoriali si stanno allargando. Il rapporto Istat del 2021 segnala su dati 2018 l’aggravarsi dei differenziali in un quadro di incremento della spesa dei Comuni (+6,9%), arrivata in totale a 2 miliardi. La media del 6,9 non è distribuita in modo omogeneo, anzi: il Nordest è l’area con l’aumento più sostenuto (+10,7%) rispetto a valori di partenza già più elevati, seguono il Centro (+7,9), il Nord-ovest (+7,6) e le Isole (+3,5); la spesa è rimasta invece stabile al Sud, in linea col precedente anno. Il risultato in termini pro capite per disabile va dai 5.509 euro del Nord-est ai 1.017 del Sud, con la Campania a 1.011. Cinque a uno. A livello regionale i valori estremi sono Friuli Venezia Giulia con 12.780 per disabile e Calabria con 306. Quarantuno a uno. Gli euro, peraltro, non dànno fino in fondo conto delle persone. Se si considera l’assistenza domiciliare ai disabili integrata da servizi sanitari, il Veneto della Stefani primeggia con l’11,1% dei disabili raggiunti (3.924 persone) mentre la Campania è all’1,5% (1.371). Nel Nordest, ogni centomila adulti, ce ne sono 174 ospiti di strutture residenziali per disabilità; nel Sud sono 74 (in Campania 51). Questo significa che in Veneto ci sono 4.776 adulti disabili (18-64 anni) ospiti di strutture residenziali dedicate e in Campania con più abitanti appena 1.870. Vuol dire che ci sono almeno tremila disabili campani gravi a carico delle famiglie. 

Eppure i livelli di prestazioni sociali come il sostegno ai disabili dovrebbero avere un valore garantito omogeneo sul territorio, anche se la data per raggiungere la soglia minima dei diritti continua a slittare in avanti sul calendario: dieci anni fa, nel 2011, l’obiettivo andava raggiunto entro cinque anni a partire dal 2014, cioè per il 2019. Poi la data è slittata al 2021. Quindi al 2030. E la ministra degli Affari regionali, Mariastella Gelmini, a fine maggio in un intervento ufficiale nella Bicamerale federalismo fiscale ha detto: «Si tratta di trovare un equilibrio finanziario: al 100% francamente credo che non si possa arrivare».

Gettando così ombre persino sulla data, lontana, del 2030. 

La franchezza va sempre apprezzata, tuttavia dire a un disabile e alla sua famiglia che se vive in Calabria o in Campania non potrà mai essere trattato al 100% come un cittadino italiano residente altrove non può lasciare indifferenti. Per due ragioni.

La prima è etica ed è quella che fa arrabbiare chi, come i tanti Nocchetti che danno un senso alla propria vita con l’impegno sociale, non sopporta di vivere in una paese in cui la spesa comunale per servizi essenziali come il sociale e gli asili nido possa essere a Napoli appena del 58% rispetto a Torino; a Bari il 53% rispetto a Firenze; a Reggio Calabria il 49% rispetto a Reggio Emilia. In pratica diritti dimezzati.

La seconda è giuridica. La Costituzione è molto chiara sul punto e all’articolo 119 (riformato nel 2001) stabilisce che gli enti più vicini ai cittadini, i quali per l’assistenza sociale sono i Comuni, debbano ricevere risorse in grado di «finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite». E «integralmente» non lo puoi tradurre con una percentuale diversa da 100%. 

La Gelmini però segnala il tema dell’equilibrio finanziario che ha esso pure valore costituzionale, nell’articolo 81 (riformato nel 2012). Cosa si fa se ci sono due valori in campo? Lo indica la legge di attuazione del principio del pareggio di bilancio (243/2012), stabilendo che se ci sono enti locali in difficoltà, lo Stato «concorre al finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni e delle funzioni fondamentali inerenti ai diritti civili e sociali». Il senso dell’articolo è che in caso di crisi puoi tagliare tutto tranne i Lep. I livelli essenziali delle prestazioni, tuttavia, non sono stati ancora definiti a vent’anni dal loro ingresso in Costituzione. Soltanto di recente, del resto, i Lep sono diventati tema di dibattito politico. La loro attuazione è entrata nelle dichiarazioni programmatiche del secondo governo di Giuseppe Conte (senza però che siano seguiti atti concreti) e di Lep si fa cenno nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, in un passaggio scritto dalla ministra per il Sud Mara Carfagna. 

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Proprio sui servizi sociali, nella legge di bilancio del 2021 è stato introdotto un «livello essenziale delle prestazioni». Non si fa esplicito riferimento ai disabili, i quali però rappresentano il 27% delle attività sociali. Ma anche stavolta al passo avanti ha fatto subito seguito un passo indietro. Il Lep infatti consiste in un minimo di un assistente sociale ogni 5.000 abitanti e in un contributo ai Comuni che devono raggiungere tale livello. Però se il Comune è troppo lontano dalla soglia (quindi se i servizi sociali sono particolarmente scadenti) decade sia il contributo sia l’obbligo a garantire il Lep. Una follia ancora una volta etica e legale (il Lep per Costituzione va garantito ovunque sul territorio) su cui ha preso posizione Piero De Luca, vicecapogruppo del Pd alla Camera, con una interrogazione al ministro del Lavoro Andrea Orlando, dal cui ministero dipendono le politiche sociali. Gli uffici di stretta collaborazione con il ministro stanno cercando di capire come preparare la risposta ma più studiano la materia, più emergono regole penalizzanti per i cittadini che vivono in Comuni svantaggiati, per cui Orlando appare orientato a trovare una soluzione entro il mese.

Infine un occhio alla tabella che indica le condizioni di partenza e quelle di arrivo al 2030 della spesa per i servizi sociali, con confronto fra grandi comuni dell’Italia meridionale e del Centronord, di popolazione molto simile. Quasi sempre la spesa per la voce «servizi sociali e nidi» al Sud è di molto inferiore a quella al Centronord, ma con qualche eccezione. Salerno in particolare spende molto più della sua città gemella Ferrara ma, attenzione, con le regole del federalismo fiscale in prospettiva dovrà spendere non la stessa somma, come ci si aspetterebbe, ma meno. Come mai? La ragione di fondo è che quando si sono avviati i complessi calcoli per stabilire i fabbisogni standard si è fatta una scoperta tale da sorprendere i tecnici: non è affatto vero che il Nord sia più efficiente, anzi. Per produrre il medesimo servizio pubblico sovente al Nord si spende di più e quindi è necessario attribuire un fabbisogno più elevato, sebbene la differenza tra i fabbisogni standard riconosciuti a Salerno (23,6 milioni) e quelli assegnati a Ferrara (27,2 milioni) appaia davvero troppo elevata. Ed è chiaro che se a Reggio Calabria i diritti riconosciuti a regime (cioè nel 2030) sono attualmente di 28,2 milioni e a Reggio Emilia di 37,2 milioni si sta continuando a progettare un’Italia disuguale. 

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