Reddito di cittadinanza, Saraceno: «È tutto da rifare, solo 1 su 3 può lavorare»

Reddito di cittadinanza, Saraceno: «È tutto da rifare, solo 1 su 3 può lavorare»
di Nando Santonastaso
Mercoledì 8 Settembre 2021, 23:59
5 Minuti di Lettura

Professoressa Saraceno, la polemica politica sul Reddito di cittadinanza complica i lavori del Comitato da lei presieduta sulla riforma di questo sussidio?
«Premesso che il Reddito non sarà abolito ma riformato, mi lasci dire che trovo da sempre il dibattito su questo tema indecente – dice Chiara Saraceno, sociologa e presidente del Comitato di esperti voluto dal ministro del Lavoro Orlando sul Reddito di cittadinanza -. L’assalto non tanto allo strumento in sé, che poteva essere disegnato molto meglio, ma ai poveri è assolutamente inaccettabile. Fake news, parole al vento, pochissima cognizione di causa: ma quale Reddito da divano?».

Da dove deve partire la riforma, allora? Dal flop degli avviamenti al lavoro?
«Si continua ad ignorare che solo un terzo dei percettori del Rdc era occupabile immediatamente perché non aveva le qualifiche necessarie, per limiti anagrafici o perché con troppi carichi familiari.

Gli imprenditori del Veneto che dicono di non riuscire a trovare personale per colpa del Reddito di cittadinanza non li prenderebbero comunque questi qui: occorrerebbe un grandissimo lavoro di formazione per utilizzarli. Ci saranno anche casi del genere ma guardiamo solo a loro? E perché non parliamo anche degli artigiani o degli autonomi che hanno preso i mille euro una tantum della pandemia anche se non avevano perso nulla?».

Andiamo sul concreto: dove pensa che sarebbe opportuno mettere mano? Coinvolgere i Comuni, ad esempio?
«Parlo a titolo personale e non del Comitato che ho convocato il 13 settembre prossimo per fare il punto sul lavoro fatto in questi mesi: contiamo di far arrivare le nostre proposte per la manovra di fine anno. Servirebbe soprattutto un diverso collegamento con i Centri per l’impiego, che sono un po’ il buco nero e che vanno resi più competenti a prescindere. Il Reddito non è una politica attiva del lavoro come si è fatto credere: per questo i Centri per l’impiego. che devono fare incontrare i percettori del Reddito occupabili e il mondo del lavoro dovrebbero funzionare molto meglio. E per farlo bisogna integrare nei Centri i tutor».

Video

Lei sostiene che va ampliata la platea dei percettori a famiglie con più figli: perché?
«Perché si sono inventati una scala di equivalenza in base alla quale un minorenne vale la metà di un maggiorenne: e questo penalizza le famiglie numerose con figli minorenni perché hanno più difficoltà ad accedere al Reddito. E anche quando ci riescono prendono di meno: l’assegno unico potrebbe risolvere il problema ma resta il nodo dell’accesso. E’ il motivo per cui nonostante l’incidenza della povertà in Italia sia maggiore tra i minorenni e nelle famiglie con più di due figli oggi vediamo che nella distribuzione dei beneficiari del Reddito sono sovrarappresentate le famiglie con soli due adulti e le famiglie piccole. Cambiare la scala di equivalenza è il primo obiettivo».

Pensa anche di proporre la riduzione dell’importo unitario?
«Il Reddito deve andare a tutti quelli che sono poveri senza penalizzare le famiglie con minorenni e questo, certo, può anche comportare una riduzione dell’importo unitario: personalmente credo che si possa distribuire diversamente. Riduco cioè quanto si dà ad una persona sola e aumento per le famiglie con più di due figli. Lo si può fare senza aumentare la spesa».

Su qualche altro punto sta pensando di proporre una riforma del Reddito?
«Abbassare il tetto del requisito della residenza degli stranieri legalmente residenti nel nostro Paese: dieci anni sono tantissimi, è il requisito più alto in Europa».

E il taglio del Reddito per chi trova lavori temporanei?
«C’è un problema di aliquota marginale molto alta. Ogni 100 euro che guadagno me ne tolgono 80 dal Reddito. Me ne restano solo 20 ed è un po’ scoraggiante. Una delle cose su cui si ragiona, anche copiando dall’estero, è invece di premiare chi lavora garantendogli una quota maggiore. Non sarebbe una novità, peraltro: quando in Italia venne introdotto il Reddito minimo di inserimento l’avevamo già inventato».

Pensa che si dovrebbe ragionare anche in termini di divari territoriali?
«Al Sud se passasse l’idea di cambiare la scala di equivalenza, con la riduzione dell’importo unitario, molti prenderebbero un po’ di meno. Ma se si comincia a distinguere tra aree geografiche bisognerebbe poi dividere anche Milano da Saronno. Io preferirei considerare che il Rdc è un Lep e quindi che si possa stabilire una soglia minima garantita a livello nazionale che può anche essere più bassa di quella attuale: poi è compito delle Regioni integrare sulla base delle risorse ma anche del costo della vita. È vero che al Sud è più basso ma i beni pubblici e il mercato del lavoro sono molto peggiori e non li si compensa dando più assistenzialismo».

© RIPRODUZIONE RISERVATA