Dina Lauricella: «Racconto le donne che sfidano la 'ndrangheta e fanno paura»

La giornalista Dina Lauricella
La giornalista Dina Lauricella
di Maria Lombardi
Giovedì 12 Settembre 2019, 16:17
4 Minuti di Lettura

Simona, Maria Concetta, Giuseppina, Maria. Figlie ribelli della 'ndrangheta. Le madri le hanno educate alle botte e al  silenzio. Devi imparare a prenderle e poi a negare, ma quali botte? Devi sopportare e obbedire, dire sì, sempre sì: al padre, ai fratelli, al marito che non hai scelto e poi anche ai figli. É la legge della famiglia, o del clan, fa lo stesso, non ammette libertà. Simoma, Maria Concetta e le altre hanno osato dire no, quella fine non la volevano fare: botte e silenzio, sangue e lacrime. Qualcuna ha pagato la rivolta con la vita. Sei pazza, ti inventi le cose, fatti curare, urlava la madre a Simona che voleva denunciare il padre. Ma come hai fatto a sopportare tutto questo?, le chiedeva la figlia. E la donna: perché, che ho sopportato?  Le sembrano niente trent'anni di legnate”.

 Queste donne fanno paura alle cosche, più dei carcere e dei giudici. La giornalista Dina Lauricella le racconta in un libro «Il codice del disonore. Donne che fanno tremare la 'Ndrangheta» (Passaggi Einaudi, sarà presentato venerdì 13 a Roma, alla Feltrinelli in Galleria Sordi). «Le donne sono custodi della cultura mafiosa, hanno il compito di trasmettarla. Educano i figli alla vendetta e le figlie alla sopportazione», spiega la giornalista che ha alle spalle anni di inchiesta sulla mafia. «Se vengono a mancare le donne, le 'ndrine che si fondano sui legami di sangue perdono la loro idenità. Ribellandosi, le donne, creano un danno enorme, più del carcere e della confisca dei beni».

Dina si avvicina a questo mondo per caso. «Un giorno di alcuni anni fa mentre mi trovavo al carcere di Rebibbia per seguire un processo non di mafia, venni fermata da un uomo della scorta di una persona coinvolta che mi disse che una signora sotto protezione per ‘ndrangheta voleva rilasciarmi un’intervista». Da lì cominciò la ricerca sulla vita di queste donne trattate come schiave, «che accettano il codice d'onore e i matrimoni combinati come fosse la normalità. E adesso qualcuna comincia a non farcela più: chi decide di collaborare, chi chiede al tribunale dei minori di Reggio Calabria di andar via dalla propria terra per salvare i figli, chi denuncia».

«Signor giudice, salvi mio figlio»

Giuseppina Multari (poi diventata collaboratrice di giustizia) per anni prigioniera in casa, da sola non poteva uscire nemmeno a fare la spesa. Maria Concetta Cacciolla costretta a bere l'acido muriatico perché voleva parlare con i giudici e la famiglia l'ha fermata, un omicidio - si sospetta - fatto passare per suicidio. Simona Napoli che ha accusato il padre e il fratello di aver ucciso il suo amante «per questioni d'onore». Alba A. (nome di fantasia) postina per conto del marito. Giuseppina Pesce, figlia del boss, minacciata di morte perché si era ribellata alla regole mafiose. «L'ultimo delitto d'onore, a San Ferdinando, dove mi trovavo alla fine di giugno per girare un documentario. Giuseppe Cacciola ha  ucciso a calci e pugni l'amante della moglie».

«Il coraggio delle donne fa paura alla 'ndrangheta»
 
Donne che da sole non possono muovere un passo, a scuola sempre accompagnate, scortate anche per fare la spesa. «Una giovane madre è uscita da sola per portare il figlio dal pediatra e il padre le ha spaccato le costole. Sono sempre gli uomini della famiglia a vendicare l'onore: il padre, i fratelli e anche i figli. A queste donne segregate, i social hanno cambiato la vita. Hanno scoperto un mondo che non conocevano, con profili falsi hanno fatto amicizie e stretto relazioni. Molte si sono innamorate online. Abituate a ricevere solo botte da uomini che sono state costrette a sposare, perdono la testa se qualcuno scrive: sei bella o fa loro un complimento. Hanno voglia di libertà e si ribellano ai codici delle famiglie». E fanno tanta paura.




 

© RIPRODUZIONE RISERVATA