Valentino Gionta, svolta dopo 40 anni: «Giudici, ora vi spiego tutto»

Il capoclan accetta di parlare durante un processo: mai accaduto prima

Valentino Gionta, svolta dopo 40 anni: «Giudici, ora vi spiego tutto»
di Dario Sautto
Martedì 8 Novembre 2022, 00:03 - Ultimo agg. 9 Novembre, 07:33
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«Da un anno voglio parlare, ma non mi hanno interrogato. Sono in carcere da più di trent’anni, sono in questa “situazione” da 43-44 anni, ma è la prima volta che sto cominciando a parlare di tante cose. Allora dico ai giudici: guardatevi bene le carte e chiedetemi pure, che ve le spiego io le cose». Sembra un messaggio di ravvedimento, quello che viene fuori dal primo clamoroso interrogatorio di Valentino Gionta, il capoclan di «Fortapàsc», che alla soglia dei settant’anni ha reso per la prima volta dichiarazioni durante un processo. Ieri, nell’aula 710 del tribunale di Napoli, in collegamento dal carcere di Sassari dove sconta l’ergastolo al regime del 41-bis, Valentino Gionta – assistito a processo dagli avvocati Roberto Cuomo e Antonio Iorio – ha chiesto la parola ed ha deciso di sottoporsi all’interrogatorio del gup Marcello De Chiara e delle pm Ivana Fulco e Valentina Sincero, che rappresentano l’accusa per la Direzione distrettuale Antimafia. 

Circa mezz’ora in cui il capo dei «valentini» di Torre Annunziata ha preso le difese di sua moglie Gemma Donnarumma (oggi libera dopo aver scontato la sua condanna), ma anche di sua figlia Teresa Gionta e del marito Giuseppe Carpentieri, nonché del nipote 39enne che porta il suo nome e il suo cognome, tutti e tre a processo con lui e accusati di essere i reggenti e di aver riorganizzato il clan Gionta tra il 2020 e il 2021, con estorsioni e traffico di droga. Mezz’ora durante la quale è emerso anche il lato umano di un boss che, con le sue truppe di affiliati, ha insanguinato per decenni le strade di Torre Annunziata. «Le mie giornate qui sono sempre uguali – ha detto Valentino Gionta – per questo ho chiesto ai miei familiari di venire più spesso. Perché io qua dentro sto da solo, penso, mi innervosisco e voglio cambiare qualcosa. Voi (riferendosi agli inquirenti, ndr) però vedete in quelle parole solo cose di camorra, invece c’è anche l’affetto verso i miei familiari». Accusato di essere tuttora il capoclan che, anche dal regime del carcere duro, riesce a decidere le strategie camorristiche, Valentino Gionta ha respinto le accuse: «Sono tutte falsità e menzogne. Venite che vi spiego io il significato delle intercettazioni, io so benissimo quello che ho detto».

Giacca chiara e maglietta nera, piglio deciso, parole pesate, ma disponibile a rispondere: dopo 32 anni di carcere duro Gionta non è più l’uomo sorridente con barba che appare nelle vecchie foto in bianco e nero. Ora è visibilmente invecchiato, smagrito, ma ha mostrato una lucidità notevole ed ha ribattuto punto per punto a tutte le accuse mosse nei suoi confronti e dei suoi familiari. «L’agguato a mio genero Giuseppe Carpentieri – ha precisato il boss – sicuramente non mi ha fatto piacere, ma è una cosa mia e me la tengo per me.

Volevate che non dovevo commentare quello che era successo? Mi sono informato, anche per capire come e dove era accaduto». Poi ha difeso donna Gemma per la frase in una lettera in cui lui le diceva «non ti dimenticare che tu sei mia moglie». «Era riferita a una sua richiesta di domiciliari per motivi di salute, sapevo che l’avrebbero rigettata. Era una frase per dirle di non metterci il pensiero. Lo sapete, Gemma è malata ed è anche molto emotiva». E poi ha aggiunto sulla figlia Teresa: «Non capisco perché se uno è delinquente devono esserlo pure i parenti». 

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Sulla possibilità di avere «un giudice amico», Gionta ha aggiunto: «Con quella frase avevo invitato Teresa e il marito ad andare a denunciare quelle forze dell’ordine che li provocavano durante le perquisizioni. Le volevo dire di andare al tribunale di Torre Annunziata e di denunciare, che era vicino e che qualche bravo giudice farà il suo dovere». Come tutti i boss, Valentino Gionta ieri ha aperto per la prima volta uno spiraglio, che non vuol dire pentimento. Però, dopo 44 anni di processi e condanne a cui ha assistito in silenzio, per la prima volta si è mostrato disposto al dialogo. Forse perché nella sua coscienza qualcosa sta cambiando. Ma forse soltanto perché stavolta a rischiare una dura condanna sono i suoi affetti più cari. 

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