Centro direzionale di Napoli, i due volti: di giorno sport e aperitivi, di sera incuria e degrado

Centro direzionale di Napoli, i due volti: di giorno sport e aperitivi, di sera incuria e degrado
di Antonio Menna
Martedì 2 Agosto 2022, 23:57 - Ultimo agg. 4 Agosto, 07:21
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«Pensavo peggio, non è per niente male», urla Nanni Moretti, sulla sua Vespa, quando nel film “Caro diario”, dopo aver attraversato tutta Roma, arriva a Spinaceto, un quartiere che «viene sempre inserito nei discorsi per parlarne male». Andiamo a vedere Spinaceto, dice. E ci arriva, fino a un muro di cinta, dove siede un ragazzo che conferma: «ma davvero, non è per niente male». Viene da pensarlo mentre si entra nel Centro direzionale intorno alle 18, quando gran parte degli uffici chiude, i lavoratori sciamano verso i parcheggi sotterranei o le strade brulicanti dell’altra Napoli, quella che si irradia verso la Stazione centrale, e ti aspetti un deserto da Downtown evacuata, una città americana abbandonata nella polvere dopo un allarme, mentre invece ti ritrovi in una piazza grande di luce e vento, dove arriva perfino l’odore del mare, ombreggiata e protetta dai grattacieli, piena di ragazzi che divorano quello spazio con la voracità e l’energia che la loro età richiede e che in tutto l’altrove intorno viene sempre compressa, tenuta sotto vuoto. Qui non ci sono auto, neppure gli immancabili motorini. O se spuntano, sono rari e vanno piano, come intimiditi dalla enormità. Ci sono viali ampi, lunghissimi: così molti ci fanno jogging, trottano sudati intorno ai grattacieli. Altri passeggiano con i cani al guinzaglio, gli anziani approfittano dell’ombra e dei mulinelli di vento che si esaltano tra gli edifici e costruiscono correnti refrigeranti che spezzano l’afa, le mamme lasciano liberi i bambini che non vengono persi mai d’occhio, qualcuno di questi barcolla sui pattini, mentre i più grandi usano i monopattini elettrici come si fa pochissimo in tutto il resto della città. 

All’isola F3, partendo dall’ingresso di via Bari, poco più avanti della grande fontana spenta, c’è ad angolo il Bar Franco, che rimane aperto fino a sera, e lì intorno si radunano gruppi di mamme a chiacchierare, sedute sui bordi di pietra delle aiuole lungo viale della Costituzione, mentre i figli giocano, e ragazze giovanissime invece siedono ai tavolini, qualche coppia beve uno Spritz. Non è glamour ma è, al tempo stesso, così grande da rassicurare e così raccolto da far sparire. «Veniamo dal Vasto - dice un gruppetto di quattro adolescenti -, ci passiamo tutto il pomeriggio. Si sta bene, qua. Siamo tranquille. Pericolo? No, forse più quando fa buio. Ma quello dappertutto». Proseguendo lungo il viale grande, e svoltando a sinistra, si arriva allo spiazzo del Palazzo di Giustizia. Qui i ragazzi radunati sono tanti e divisi in tre gruppi: il primo gioca a biliardino davanti a un altro bar aperto fino a tardi. Sono una ventina e i loro schiamazzi scivolano contro le pareti di vetro dei grattacieli e non sembrano far rumore. Davanti al portone di ingresso del Tribunale ci sono invece un’altra ventina di giovanissimi che giocano con gli skate. Hanno sistemato degli ostacoli di ferro, portati al centro della piazza, e fanno acrobazie spaccastinchi sulle loro tavolette snodate, come nei film americani. È un popolo bello, pulito, audace ma rigoroso: multirazziale, ci sono neri, cinesi, indiani, napoletani e parlano tutti lo stesso linguaggio fatto di poche parole e molto slang, molti versi; in mezzo a loro una sola ragazza, coi jeans strappati, che fa volteggiare il suo skate su una barra di ferro tra gli applausi degli altri. Il terzo gruppo è su un angolo della piazza. Sono almeno in trenta, tutti giovanissimi. Hanno preso due bidoni verdi della raccolta differenziata del vetro e ci hanno fatto le porte di calcio. Prendono posizione con magliette coordinate e si preparano alla loro partita, mentre poco lontano le ragazze sedute sulle aiuole parlottano e li guardano. Almeno cento giovanissimi dai 14 ai 17 anni che di pomeriggio, nella totale spontaneità, popolano e organizzano, con disciplina e gioco, uno spazio che li contiene tutti agevolmente come un pantalone di due taglie in più. 

«Per la maggior parte qui ci sono uffici - dice una guardia della Gesecedi, la società che si occupa di vigilanza -, dalle diciotto i viali si svuotano, molti negozi chiudono. Ma poi gli spazi vengono occupati dai ragazzi e dalle famiglie. È una situazione tranquilla; problemi di sicurezza? Qualcosa ogni tanto c’è. Abbiamo arrestato noi stessi qualche ladro d’auto, ma più o meno come nel resto di Napoli». «Questa è una grande agorà delle relazioni - riflette Alessandro Gallo, consigliere municipale, presidente del Comitato civico Centro direzionale, che passeggia nei viali sotto l’abitazione nella quale vive da anni -, è stata pensata così da Kenzo Tange.

Il Centro direzionale è un’opera d’arte, la pavimentazione è di pregio, non è una sede stradale. Non è carrabile, è pensata per i pedoni, per la vita comune. Le potenzialità di quest’area sono ancora enormi e intatte». 

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Ma non sono tutte rose. Anzi, le rose non ci sono per nulla. Se lasci i viali grandi, e ti avventuri negli spazi più stretti, se ti distrai da questa incredibile voglia dei giovani di stare insieme nella libertà e vai a vedere lungo i giunti dei palazzi, trovi anche qui l’immancabile purulenza della ferita aperta. Il verde pubblico, per esempio, totalmente bruciato dal sole e dall’incuria. La pavimentazione divelta, sconnessa, le buche. La sporcizia: tappeti di bottiglie, cartacce, spazzatura annidata negli angoli. E poi la vergogna dei passaggi tra il sopra e il sotto: le scale mobili abbandonate e distrutte, porte chiuse e arrugginite, muri sbrecciati, pareti bucate da cui cola acqua puzzolente, anfratti dove si depositano masserizie che diventano desolanti ripari per la prostituzione, soprattutto maschile, con giovani immigrati che attendono clienti maschi. E poi una marea di serrande chiuse, di negozi mai aperti o falliti. «Il Centro direzionale era pensato come una economia circolare - riflette ancora Alessandro Gallo -; nell’enorme sottoscala ci sono 4mila posti auto. Da lì si dovevano trarre le risorse economiche per la manutenzione della parte che stava sopra. Invece gli introiti dei parcheggi gestiti dalle partecipate del Comune finiscono nei loro bilanci e per la manutenzione del Centro non si spende quasi nulla». «Sento che qui - si inserisce un anziano signore di nome Giulio, che abita in uno dei palazzi degli enti previdenziali, a ridosso delle torri - uno dei problemi sia stata la mancanza di insediamenti residenziali. Evidentemente non conoscono il Centro direzionale: ci sono oltre mille appartamenti, per almeno 3mila residenti. Mica è poco. Insieme a tutto il movimento degli uffici, questa è una piccola città, che basterebbe poco a proteggere e tutelare, anche per come è strutturata. Siamo in una isola, potrebbe essere felice con poco». Il rosario delle contraddizioni snocciola anche qui i misteri dolorosi della Napoli che conosciamo. Si chiamano, al solito: degrado urbano, disservizi essenziali, incuria degli spazi comuni, mancanza di manutenzione. Scene che potrebbero essere girate anche in mille altre strade della città. Qui, però, c’è un’amarezza in più: questa modernità, questo spazio, questa luce, tutto questo futuro, adottato in modo così spontaneo dai giovani, poteva essere tanto con poco più, ma non ci si è creduto abbastanza. Eppure basta fare due passi, entrarci, arrivare a un muro di cinta, alzare gli occhi, guardarsi bene intorno per dire come Nanni Moretti a Spinaceto: ma non è per niente male, questo Centro direzionale. 

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