Montefibre Acerra, l'odissea di 200 dipendenti: in cassa integrazione ​da 18 anni

Montefibre Acerra, l'odissea di 200 dipendenti: in cassa integrazione da 18 anni
di Pino Neri
Sabato 22 Gennaio 2022, 23:56 - Ultimo agg. 23 Gennaio, 09:21
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Troppo vecchi per poter ritrovare il lavoro perduto e troppo giovani per andare in pensione. Sta tutto in quest’antinomia il dramma dei 172 ex operai e impiegati del fu stabilimento chimico Montefibre di Acerra. Gente che ha tra i 50 e i 60 anni e oltre ma che per effetto di un destino contrario da molto tempo non è più né carne né pesce: fuori dal mercato di una ricollocazione occupazionale risultata evanescente e contemporaneamente fuori dalla prospettiva del pensionamento. Per loro si stanno spendendo l’europarlamentare del Pd Andrea Cozzolino, la deputata dem Teresa Manzo, e il vescovo di Acerra, Antonio Di Donna. Hanno rivolto un appello al ministro del Lavoro, Andrea Orlando, per mettere la parola fine a una vertenza infinita, che si trascina da tempo immemore.

Ben diciotto anni di patimenti per centinaia di famiglie e un sostanziale spreco di danaro pubblico. Risale al 2004 l’inserimento in cassa integrazione a zero ore dei 450 dipendenti dello stabilimento. Un anno che segnò la fine di un lavoro pluridecennale dovuto alla dismissione dell’impianto chimico, che dagli anni Settanta produceva fibre sintetiche. Alla sua apertura, in contrada Pagliarone, all’epoca salubre e fertilissima campagna di Acerra, l’impianto dava lavoro a quasi duemila persone.

Ma la crisi della chimica di base italiana giunse quasi subito, fino ad assottigliare le maestranze a sole 450 unità nei primi anni Duemila. Quindi la fine delle produzioni e la fermata della fabbrica: tutti in cassa integrazione.

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Centinaia di famiglie sono state mantenute dalla cig per undici, lunghissimi anni. Nel 2015, la società proprietaria dello stabilimento ha dichiarato fallimento e i dipendenti, il cui numero, tra personale deceduto, dimesso o in pensione, si è molto assottigliato, sono finiti nelle liste di mobilità. Una mobilità che, attraverso una irrisoria indennità mensile di 550 euro, si trascina da quasi sette anni coinvolgendo appena 172 ex dipendenti. Alcuni di loro versano nella povertà più totale. Altri si sono «arrangiati» con lavori saltuari, al nero. «Siamo in una condizione disastrosa – racconta Mimmo Falduti, 63 anni, ex impiegato della Montefibre –. Questa mobilità in deroga di 550 euro che stiamo percependo è addirittura al di sotto del reddito di cittadinanza. Intanto io non sono idoneo né a tornare al lavoro, a causa della mia età, né ad andare in pensione. Spero solo che si trovi una soluzione per esempio attraverso le norme che regolano l’esposizione all’amianto».

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Se si riuscisse a dimostrare che i lavoratori della Montefibre sono stati tutti esposti all’amianto potrebbe aprirsi una finestra che porta dritta all’indennità di mobilità con aggancio al pensionamento. Va proprio in questa direzione lo sforzo politico promosso presso il ministero del Lavoro dalla parlamentare del Pd Teresa Manzo. «Abbiamo istituito un comitato di sorveglianza - fa sapere ancora Falduti - e finora sono stati scoperti, dai nostri legali, vari lavoratori che hanno operato nella Montefibre in reparti esposti al rischio amianto». Il processo sui morti di cancro alla Montefibre si è però chiuso alcuni anni fa. Ma tra i tanti lavoratori deceduti per il male che non dà scampo a causa dell’esposizione al minerale killer il tribunale ne ha riconosciuto soltanto uno su trecento. La lieve condanna a pochi mesi di reclusione, per omicidio colposo, che ha riguardato gli ex direttori della fabbrica scaturisce dalla morte di quest’unico operaio. «Ho 59 anni e ho lavorato nella Montefibre per diciannove - racconta Antonio Montesarchio, ex operaio -. Era chiaro sin dall’inizio che l’obiettivo fosse intercettare fondi pubblici per un impianto che non è mai decollato. Intanto per molti di noi ci può essere una sola opzione: tornare al lavoro. Siamo troppo giovani per la pensione».

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