Clan, i trucchi della camorra per le scarcerazioni: «Sanitari complici»

Clan, i trucchi della camorra per le scarcerazioni: «Sanitari complici»
di Luigi Sabino
Martedì 3 Agosto 2021, 23:59 - Ultimo agg. 4 Agosto, 20:13
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Passare il resto della propria vita in prigione. È questo il principale timore degli affiliati alla camorra e, in particolare, degli Amato-Pagano di Melito, i feroci scissionisti che diedero inizio alla sanguinosa faida con i Di Lauro. Una paura, quella di passare il resto della propria vita dietro le sbarre, talmente concreta da spingere boss e gregari a diventare veri esperti su come eludere, anche in caso di pesanti condanne, il carcere. È stato Paolo Caiazza, che del sodalizio è stato esponente apicale fino al momento in cui ha deciso di collaborare con lo Stato, a svelare ai magistrati della Dda i trucchi utilizzati dai suoi ex compagni per sottrarsi al regime carcerario. Un lungo elenco di sotterfugi, alcuni dei quali particolarmente fantasiosi. Un maestro dell’inganno, ad esempio, sarebbe stato Ciro Mauriello, uno dei fondatori della scissione, che, nonostante una condanna all’ergastolo per il suo coinvolgimento negli omicidi di Fulvio Montanino e Claudio Salierno, era riuscito a evitare la prigione grazie a presunti problemi cardiaci e di pressione. Mauriello, secondo Caiazza, era in grado di simulare, durante le visite mediche, una grave forma di ipertensione con alcuni semplici stratagemmi. 

«Non respirava e stringeva il sedere e quando, poi, si misurava la pressione, questa era sballata». Risultato? Incompatibilità con il regime carcerario e detenzione domiciliare in Puglia da dove il boss, come dimostrato da successive indagini, ha continuato a occupare un ruolo di primo piano all’interno del clan fino al momento del suo ultimo arresto. Più subdolo, invece, lo stratagemma utilizzato da Emanuele Baiano, altro esponente di rilievo della cosca e parente acquisito degli Amato.

Il ras, quando gli revocarono la qualifica di “lavorante” nel carcere di Secondigliano, qualifica che gli permetteva una certa libertà nel penitenziario, iniziò a fingersi pazzo perchè aveva paura di passare le sue giornate in cella.

Una strategia studiata a tavolino, secondo Caiazza, al punto che Baiano chiese informazioni sulla “pazzaria” a un altro detenuto realmente affetto da disturbi mentali. Questi gli avrebbe indicato i medicinali da richiedere al presidio medico del carcere e quali sintomi manifestare. Non solo. Gli avrebbe suggerito anche di assumere alcune delle medicine perché, in caso di analisi a sorpresa, ne sarebbero state trovate tracce nel sangue. Un trucco, però, che nascondeva delle insidie. In un’occasione, infatti, i farmaci avrebbero causato al ras gravi scompensi. Vera e propria recita, invece, era quella messa in piedi da un altro esponente della cosca, Francesco Ferro che, temendo di essere arrestato, in tempi non sospetti aveva cominciato a frequentare un sert della periferia nord simulando di essere un tossicodipendente. Il suo piano, ricorda Caiazza, era che, in caso di arresto, grazie alla documentazione rilasciata dal centro, avrebbe potuto scontare una eventuale condanna all’interno di una comunità e non in galera. Uno stratagemma, questo, che sarebbe stato utilizzato anche da altri esponenti dell’organizzazione come Renato Napoleone e i fratelli Cancello. 

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Caiazza, infatti, ha riferito che il clan poteva contare sulla complicità di professionisti in servizio in alcuni Sert della periferia nord e finanche del personale di una comunità di recupero della zona di Castelvolturno. I contatti erano tenuti da Rosario Tripicchio, ucciso in un agguato durante la cosiddetta “terza faida”. Grazie a Tripicchio, ha spiegato il collaboratore, numerosi affiliati all’organizzazione erano riusciti a ottenere una documentazione fasulla che attestava la loro tossicodipendenza. Documentazione decisiva alla scarcerazione. Ovviamente, nessuno dei soggetti indicati da Caiazza, aveva mai fatto uso di sostanze stupefacenti. Un altro stratagemma, in cui il ras Antonio Angelo Gambino sarebbe stato maestro, è quello di simulare un grave “deperimento organico”. «Rifiutava di mangiare e di incontrare altri detenuti - ricorda Caiazza - e noi cominciammo a preoccuparci perché sebbene sapevamo che stava fingendo lo vedevamo comportarsi in modo strano e dimagrire a vista d’occhio». La conferma che si trattava di una finta arrivò durante un processo quando, avvicinato da un uomo, Gambino iniziò a “fare il matto”. Quando si rese conto che, però, era il sostituto del suo difensore si calmò e, scusandosi, disse: «Vi avevo scambiato per un dottore».

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