Sos femminicidi, la sociologa: «Impariamo a riconoscere i sintomi-sentinella»

Anna Malinconico: «Silenzi e omissioni, è un crimine collettivo»

Anna Malinconico
Anna Malinconico
di Marilicia Salvia
Sabato 19 Agosto 2023, 23:55 - Ultimo agg. 20 Agosto, 16:20
4 Minuti di Lettura

«Un crimine collettivo. Una colpa di cui si macchia non solo l’assassino, esecutore materiale del femminicidio, ma una intera comunità: chi doveva proteggere e non l’ha fatto, chi doveva vedere e ha chiuso gli occhi, chi doveva incaricarsi di disintegrare un modello culturale tribale, arcaico e si è fermato al primo ostacolo». Insomma: «Per uccidere una donna non basta un uomo», dice la sociologa Anna Malinconico, componente della Cabina di regia regionale contro la violenza di genere e responsabile dell’associazione Apeiron che svolge seminari e corsi di formazione su genitorialità e rapporti familiari nelle scuole e nei palazzi delle istituzioni.

Uno di questi corsi l’ha vista impegnata nell’ultimo anno alla Procura di Torre Annunziata, che oggi indaga sulla morte di Anna Scala dopo che le denunce della povera donna erano rimaste chiuse in qualche cassetto. Cosa avrebbero dovuto sapere, i suoi “allievi”, e invece non hanno imparato, per impedire l’ennesimo femminicidio?

«Quegli incontri sono stati fortemente voluti dal presidente del Tribunale Aghina che con il procuratore Fragliasso avvertiva la necessità di rendere omogeneo l’approccio di magistrati e polizia giudiziaria nell’attuazione del Codice rosso.

Abbiamo approfondito, insieme agli aspetti operativi, anche le criticità di questa legge, prima delle quali appunto la discrezionalità che lascia agli operatori nella risposta alle vittime».

Ogni caso, però, ha le sue peculiarità. È davvero possibile uniformare la reazione del sistema?

«I fattori in campo sono molti. Comprese le riserve mentali nei confronti delle “presunte” vittime e perché no l’amicizia con il “presunto” carnefice che, specie nei piccoli centri dove si conoscono tutti, possono condizionare l’obiettività di chi raccoglie la denuncia. Un punto fermo dovrebbe essere la creazione di veri e propri pool di esperti che nelle caserme e nei commissariati, nelle procure e negli ospedali, negli uffici dei vigili urbani e degli assistenti sociali sappiano esattamente cosa fare e come. Pool dai quali escludere persone non empatiche o non interessate al problema».

Il pregiudizio dunque resiste?

«È uno degli elementi che ancora impediscono di superare l’emergenza. Non è vero che il Codice rosso non sia una buona legge, va migliorata in alcuni aspetti pratici ma con onestà bisogna riconoscere che in nessun altro campo, in Italia, si sono fatti tanti passi in avanti sul piano normativo. Per una volta ai politici di ogni schieramento non possiamo rimproverare nulla. È il cambiamento culturale che ancora arranca. Lo vedo ogni volta che mi capita di lavorare con le scuole: il messaggio ai ragazzi arriva, ma se a casa i rapporti tra i genitori, o tra fratelli e sorelle sono squilibrati, ogni sforzo è vanificato».

 

Il femminicidio di Anna quindi non sarà l’ultimo?

«Dipende dalla capacità dell’intero sistema posto a protezione delle donne di rinsaldarsi, dopo che si sarà individuata la falla».

Ci sono ancora dubbi?

«La legge dice che le donne che vanno a denunciare violenze dopo tre giorni devono essere risentite: sembrerebbe prudenza, in realtà è pregiudizio. In quei tre giorni tante fanno i conti con la paura e non si presentano. Continueranno a subire, in silenzio. O verranno ammazzate».

Ma può anche succedere che la denuncia sia temeraria. Un dispetto al marito, una vendetta.

«Ed ecco l’anello mancante. Una seria analisi del rischio. Su questo abbiamo lavorato molto con gli inquirenti, durante quei seminari. Occorre imparare a intercettare il rischio reale, intervenire sui sintomi sentinella. Anche perché le donne che denunciano restano poche rispetto all’estensione della piaga».

Video

Il braccialetto elettronico può essere una soluzione?

«Aiuterebbe l’uomo a prendere consapevolezza di essere pericoloso, o quantomeno giudicato tale dalla comunità. Ma in caso di recidività la misura dovrebbe essere associata all’obbligo di frequentare corsi di rigenerazione. È sbagliato considerare il percorso di un violento solo quando ha ucciso».

Se il femminicidio è, parole sue, un crimine collettivo, l’assassino materiale ha responsabilità attenuate?

«Per niente. Dirò di più: la violenza motivata da supposta supremazia di genere non può mai avere cittadinanza tra i disturbi mentali rilevanti sul piano forense, né valere come attenuante processuale. In caso contrario, le verrebbe data una giustificazione morale, e quindi culturale. Lo stigma deve essere netto e univoco, o questo orrore non finirà mai».
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA