Napoli, la truffa del reddito di cittadinanza in macelleria: complici nelle Municipalità

Napoli, la truffa del reddito di cittadinanza in macelleria: complici nelle Municipalità
di Giuseppe Crimaldi e Leandro Del Gaudio
Mercoledì 6 Luglio 2022, 00:12 - Ultimo agg. 7 Luglio, 07:33
4 Minuti di Lettura

All’“Antica macelleria Iavarone” negli ultimi anni la clientela gli affari andavano a gonfie vele. Ma la fila al bancone non era solo merito della qualità di controfiletti e bistecche: dietro l’attività commerciale si nascondeva un’organizzazione agguerrita che riusciva a frodare lo Stato dribblando i paletti imposti ai percettori del reddito di cittadinanza. Il trucco consisteva nel simulare la vendita di carne con la carta del reddito di cittadinanza, ottenendo in cambio il denaro contante decurtato di una percentuale a titolo di “spese di commissione”.

Il giochino è andato avanti per mesi, forse anche anni, fino a quando la Guardia di Finanza si è insospettita su alcune anomalie ricorrenti nella contabilizzazione quotidiana, e ha cominciato a indagare; scoprendo che in realtà le macellerie coinvolte erano due: una esistente solo sulla carta, che veniva adoperata per tenere in piedi un giro di fatture false, e l’altra che si era trasformata in un vero e proprio bancomat per i titolari del negozio. Una a Roma, l’altra a Napoli, nel cuore del Borgo di Sant’Antonio, dove la truffa correva sul filo dei pos con cui è possibile - per i detentori del reddito - fare acquisti a spese dello Stato. Ma ecco alcune itercettazioni, che conviene considerare alla luce delle indagini condotte dalla Procura di Napoli: «Il reddito ci ha salvato - spiega uno dei titolari indagati, parlando con la madre senza ovviamente sapere di essere intercettato - stiamo avendo un business di 200-210mila euro totali». Affari d’oro, insomma. Per questi fatti Domenico Iavarone e i suoi due figli Lorenzo e Gaetano sono indagati dalla Procura di Napoli (pm Landolfi e Scarfò) con le accuse di truffa aggravata ai danni dello Stato e di usura. Ieri mattina i militari del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria diretto dal generale Domenico Napolitano hanno sequestrato i due complessi aziendali relativi all’attività commerciale di macelleria, oltre a denaro contante per 92mila euro e titoli di credito (cambiali e assegni).

Secondo gli inquirenti, infatti, i tre prestavano denaro pretendendo tassi usurai. 

Quest’inchiesta sarebbe solo alle battute iniziali, e promette sviluppi anche clamorosi. Già, perché dal contesto accusatorio emerge l’ipotesi che la macelleria sarebbe solo uno dei terminali di una frode ben orchestrata che coinvolgerebbe anche altri soggetti. Riflettori puntati anche su alcuni uffici della seconda e terza municipalità, come è noto ai lettori del Mattino: è in questi uffici, che c’era chi riusciva a fabbricare finti decreti di cittadinanza, per lo più intestati a cittadini extracomunitari, per sbloccare redditi di cittadinanza. Ma torniamo alla storia della macelleria: le domande per il reddito di cittadinanza erano state presentate in numero rilevante presso un patronato Enasc e in un Caf con sede a Roma e gestito da due persone in rapporti con i tre macellai indagati. Dalle verifiche riguardanti il periodo tra marzo 2020 e lo stesso mese del 2021 è emerso che sono state incassate somme pari a oltre 290mila euro attraverso pagamenti via Pos con carte ricaricabili arrivate per il Reddito di Cittadinanza intestate a persone di nazionalità romena. E dunque il meccanismo era questo: i tre macellai avrebbero monetizzato le provviste derivanti dai percettori del reddito i quali entravano nel negozio simulando acquisti di carni e ne uscivano dopo aver prelevato denaro contante “cambiato” dai commercianti in cambio di una trattenuta che, percentualmente, variava dal 10 al 20 per cento.

Video

Fatto sta che le carte venivano utilizzate sempre nello stesso centro commerciale (quello degli indagati) e non era stato riscontrato il requisito della residenza, da almeno dieci anni, in Italia. Tante le intercettazioni che proverebbero le responsabilità degli indagati. In una si sente Gaetano Iavarone dire al suo interlocutore che gli spiega di avere altri potenziali “clienti”: «Falli venire, ma non devono mai dire al telefono la parola “cambiare”. Tanto qui possiamo cambiare quante carte volete: cinque, dieci, 20 anche 30». Per far apparire la contabilizzazione regolare servivano però le fatture: e per questo, secondo l’accusa, i tre si sarebbero avvalsi dei “consigli” di un commercialista. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA