La mia Napoli, Antonella Morea: «Penso in napoletano, al mare non rinuncio»

La mia Napoli, Antonella Morea: «Penso in napoletano, al mare non rinuncio»
di Maria Chiara Aulisio
Venerdì 29 Aprile 2022, 10:17
5 Minuti di Lettura

Attrice e cantante, scoperta da Peppe Barra, apprezzata da Eduardo, è stata protagonista di ben cinquemila repliche della più celebre opera di Roberto De Simone, La gatta Cenerentola. Antonella Morea è una di quelle napoletane innamorate della sua città più di ogni cosa: «Da qui - assicura - non potrei mai andar via e le occasioni non mi sono mai mancate. A qualcuno potrà anche sembrare strano ma io a Napoli ci sto na bellezza».

Nonostante tutto?
«Nonostante tutto ciò che si dice e che - purtroppo - in parte è pure vero, ma c'amma fa, chest'è».

Basta ca ce sta o sole. Ca c'è rimasto o mare?
«Simme e Napule paisà, esatto: è così. Secondo voi come si fa a vivere in una città senza mare? Per me sarebbe impossibile».

Dove abita?
«Al corso Umberto. Ho un appartamento al sesto piano, ogni volta che mi affaccio alla finestra spunta una striscia di mare. Non è assai ma basta a mettermi di buon umore».

La sua carriera di attrice è cominciata a Napoli.
«Nessuno mi crede quando dico che io penso in napoletano. Nella mia testa, se devo ragionare sulle cose, lo faccio in dialetto e poi mi esprimo in italiano».
Recentemente ha detto che il canto è sempre stata la sua grande passione.
«Confermo. Amo cantare - e che lo dico a fare? - in napoletano. Una decina di anni fa ho registrato anche un disco da solista, Anema d' 'o munno. La musica nel sangue fin da piccola».

Bambina prodigio?
«Diciamo che ho cominciato presto».

A che età?
«Avevo 14 anni, mia madre mi iscrisse a una scuola di canto al Vomero. Dopo la lezione ero sempre gasatissima: tornavo a casa, mettevo un disco di Mina e cominciavo a cantare».

Tipo karaoke.
«Sì, poi abbassavo il volume e cantavo solo io urlando a squarciagola». 

Per la gioia della famiglia.
«Sul serio».

Non dava fastidio a nessuno?
«Più confusione ci stava e più ci piaceva.

Abitavamo nel centro storico, ho un bellissimo ricordo della mia infanzia: allegra, spensierata, serenamente caotica. Casa nostra era un porto di mare».

Una festa insomma.
«A volte c'era pure Renato Carosone».

Carosone?
«Sì, era un cugino di mamma, molto appassionato della sua cucina. Prima si mangiava e poi si cantava».

Bella atmosfera.
«Fantastica. Sarà anche per questo che la Napoli antica me la porto nel cuore».

C'è una zona in particolare?
«Dal Duomo a piazza del Gesù è una delle passeggiate che preferisco. Abitando al corso Umberto mi capita spesso di uscire e camminare per i vicoli anche senza meta. E poi mi piace assai entrare e uscire dalle botteghe dei vecchi artigiani. Ormai li conosco tutti».

Una sosta dove la fa?
«Quando ho tempo la chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco è tappa fissa. Quella de' 'e cape 'e morte per intenderci».

Un piccolo museo.
«Basta varcarne la soglia per cominciare un vero e proprio viaggio nella cultura napoletana. Attraversi la chiesa e ti ritrovi nell'antico e grandioso ipogeo».

Altra tappa?
«Il San Ferdinando, irrinunciabile».

Il teatro di Eduardo.
«Tempio della drammaturgia napoletana, classica e contemporanea. È lì che per la prima volta ho recitato La gatta Cenerentola. Ricordo ancora i fogliettini volanti scritti da Roberto De Simone, perché in realtà non avevamo un copione».

Oltre cinquemila repliche.
«Fu un successo strepitoso. Teatro sempre pieno e applausi a non finire. Il San Ferdinando poi è accogliente, perfino il tavolato è più comodo».

Ha mai lavorato con Eduardo?
«No, con lui no. Però grazie a mia madre, appassionata di De Filippo, sempre al San Ferdinando ho visto tutte le sue commedie. Ma un ricordo del maestro ce l'ho comunque».

Racconti.
«Con La gatta Cenerentola andavamo in scena a Roma. Lo spettacolo stava quasi per cominciare, noi attori ci stavamo preparando e, come al solito, c'era una confusione enorme».

Quindi?
«A un certo punto silenzio assoluto».

Come mai?
«Era entrato Eduardo. Bastò la sua presenza a far tacere tutti. Fece un giro nei camerini, ci augurò buon lavoro e andò via».

Incuteva timore?
«Rispetto direi. Fu una strana sensazione: caos, silenzio e poi di nuovo caos. Come se l'arrivo inaspettato del maestro ci avesse ammutoliti, in un contesto dove il vociare rappresenta la normalità. Rimanemmo senza dire una parola fino a quando Eduardo non si avviò verso la platea».

Dal San Ferdinando a piazza Dante. È vero che voi attori dopo lo spettacolo andate a cena lì?
«Il Leon d'Oro, per tradizione, è il ristorante degli artisti. E infatti è pieno di foto e di ricordi: Gassman, Gaber, Proietti, Lavia, Ranieri, Rigillo. Naturalmente Eduardo, Luca. E Mico Galdieri, storico impresario teatrale, se volevi incontrarlo dovevi andare al Leon d'Oro oppure da Peppino».

Da Peppino?
«Sì, un vecchio ristorante di Santa Lucia, oggi non c'è più ma era un punto di riferimento indiscusso per gli artisti. Patroni Griffi cenava spesso lì».

Ha lavorato anche con lui?
«A lungo. La sua Napoli milionaria fu un successo. Girammo l'Italia intera, biglietti introvabili. Ovviamente lo spettacolo era tutto in dialetto».

Certo.
«Rido ancora se ci penso. Andavamo in scena al nord, poco prima che iniziasse la commedia uno dei produttori ci chiese di italianizzare un poco il dialetto, altrimenti - disse - qua non ci capiscono».

Impresa impossibile.
«Risposi io recitando la scena del caffè: Vuliss nu poco e cafè, ci sta? sì ma prima adda vollere a posa, anzi deve bollire la posa. Scoppiarono a ridere tutti. Pure il produttore».

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