Don Tonino Palmese: «La mia Napoli, l'infanzia a Ponticelli e il papà comunista»

Don Tonino Palmese: «La mia Napoli, l'infanzia a Ponticelli e il papà comunista»
di Maria Chiara Aulisio
Venerdì 8 Aprile 2022, 12:00
6 Minuti di Lettura

Ponticelli, Doganella e Posillipo. La sua Napoli passa anche da qui, anzi soprattutto da qui. Don Tonino Palmese - sacerdote da oltre trent'anni e presidente della Fondazione Polis per i familiari delle vittime innocenti della criminalità - la ricorda e la racconta con cura: posti diversi, momenti di vita preziosi e indimenticabili, storie e vicende legate a luoghi e persone che gli tornano in mente come se fosse ieri.

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Partiamo da Ponticelli.
«Il mio quartiere: è lì che sono nato. Oggi è tutto diverso ma averci vissuto fu per me una grande occasione».

Quale?
«Quella della socializzazione innanzitutto: la scuola, l'oratorio, i pomeriggi passati a giocare in cortile. Così ho scoperto il valore profondo dell'amicizia. Anni belli in cui imparai anche ad amare le due anime dei miei genitori».

Orientamenti familiari diversi?
«Complementari direi.

Da un lato mio padre, operaio comunista militante, era così innamorato di Berlinguer che riuscì a morire nello stesso giorno, mese e anno in cui morì lui. Dall'altro mamma, profondamente cattolica, convinta che con l'aiuto di Dio tutto sarebbe stato più facile. Sapete qual era il suo motto?»

Lo dica lei.
«Comme vaje co 'o core, accussì Dio t'aiuta».

Parole sagge.
«Titina, lo racconto spesso, senza aver mai studiato ne sapeva più di tanti professori».

Ponticelli, dunque.
«Sì, Ponticelli. Mi ha insegnato a assaporare il piacere di condividere il mio tempo con chi aveva di più e chi meno di me. Nelle differenze ci univa il senso di appartenenza al lavoro dei nostri genitori e a quella dignità che poi si respirava in famiglia».

Oggi non abita più lì?
«Da tempo ormai. La mia vita a un certo punto cambiò, insieme con molte altre cose. E però ogni volta che ci torno provo grande amarezza: è diventato un quartiere dormitorio, non c'è lavoro e nessuna prospettiva per il futuro».

Ha detto che la sua vita a un certo punto cambiò.
«Arrivò il tempo dell'evangelizzazione e dei luoghi dove la mia fede si è accresciuta. La Doganella, parto da qui, e l'istituto Don Bosco che ho vissuto prima da seminarista e poi con l'abito del prete».

La comunità salesiana, quindi.
«Ricordo i primi anni condivisi con 400 ragazzi del collegio: storie drammatiche e povertà assoluta, la metà aveva i genitori in carcere, l'altra metà forse nemmeno li teneva i genitori. E poi c'era don Bruno».

Il suo maestro?
«Sì, don Bruno Gambardella, è scomparso di recente. È lui che mi ha fatto conoscere la bellezza di san Giovanni Bosco. Parlava poco, don Bruno, ma il suo silenzio era l'occasione per guardare alla vita e incantarsi davanti al volto e alle gesta del santo».

Le ha lasciato un bel ricordo.
«Don Bruno - come don Bosco - pur essendo uomini, sono stati per me i volti più materni che ho incontrato nella storia della Chiesa e dei salesiani».

Nascita a Ponticelli, formazione alla Doganella e approdo a Posillipo.
«Frequentavo la facoltà teologica, appena diventato sacerdote. Ora, a parte l'indiscutibile bellezza paesaggistica, è a Posillipo che ho vissuto incontri e persone che poi si sarebbero rivelati determinanti».

Come don Bruno alla Doganella?
«Penso a Piersandro Vanzan, un gesuita che univa la formazione teologica con la semplicità della vita, mi ha educato a sostenere le ragioni della fede tenendo insieme il pensiero e l'azione. Fu l'unico che riuscì a colmare il vuoto lasciato dalla morte di mio padre a poco più di 50 anni. E non solo».

Che altro?
«Grazie a lui scoprii che potevo studiare e perfino insegnare. Due modalità del tutto estranee al mio vissuto. Anzi, talvolta avevo addirittura immaginato che avrebbero potuto disturbare la mia vocazione salesiana e sacerdotale».

E invece a farle cambiare idea ci pensò padre Vanzan.
«La sua umiltà insieme all'incoraggiamento del compianto cardinale Castillo - salesiano venezuelano che mi ordinò prima diacono e poi presbitero - mi aiutò a capire che approfondire il discorso su Dio, e sulla Chiesa, diventava una grande occasione formativa e spirituale. Fu allora che compresi un principio fondamentale: l'ignoranza non fa bene né a Dio e né agli uomini».

C'è una chiesa in particolare dove entra più volentieri?
«La chiesa di Sant'Anna a Barra e il Santuario di Pompei fanno parte di me: da bambino, e poi da adulto, li ho frequentati con mia madre. E ogni volta che ci sono tornato ho ritrovato l'atmosfera, le luci e i profumi di allora. E poi santa Chiara».

La frequenta spesso?
«Non lo sa nessuno ma la cappella del tabernacolo è il luogo dove mi rifugio per stare in silenzio davanti a Dio: la confusione tra il discorso della montagna pronunciato da Gesù - e la montagna di discorsi fatti anche da me, ma credo in ottima compagnia - determina una gran confusione spirituale. E allora quella cappella resta il luogo più bello dove assaporare il linguaggio preferito da Dio: il silenzio».

Le chiese, fiore all'occhiello di questa città.
«Senza dubbio. E amo conoscerle. Ma ciò che mi preme di più è la Chiesa».

In che senso?
«Ho sempre pensato che si può essere preti a Napoli - e conta poco - o preti di Napoli che vale molto di più».

Che differenza c'è?
«Enorme. Nel secondo caso vuol dire incarnarsi pienamente in questa città offrendo un servizio gratuito nel rispetto di una frase che ogni giorno ha segnato - e qualche volta anche angosciato - la mia coscienza».

Quale frase?
«Quella che don Milani pone a tutti noi: Fai strada ai poveri senza farti strada. Spesso mi sono chiesto se la mia visibilità potesse dipendere dall'impegno che negli anni ho profuso a favore dei più bisognosi e dei familiari delle vittime della criminalità».

Che risposta si è dato?
«Devo ammettere che mi sento abbastanza in pace davanti a Dio e alla Comunità. Sono convinto che le tante persone che ho avuto il privilegio di accompagnare nelle difficoltà mi riconoscano non tanto per ciò che ho fatto, ma perché mi ritengono parte della loro vita. Questo mi ha permesso - e mi permette ancora oggi - di operare secondo la dottrina evangelica: Siamo tutti servi inutili». 

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