Pasolini e Partenope, la sua città «presidio»

Pasolini e Partenope, la sua città «presidio»
di Leonardo Guzzo
Martedì 1 Marzo 2022, 10:14 - Ultimo agg. 10:28
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Napoli per Pasolini, che il 5 marzo avrebbe compiuto 100 anni, è un giorno di luglio del 59. Lui fa Ulisse, in folle volo su una Fiat Millecento per battere le coste del Belpaese e raccontare l'estate del boom alla rivista Successo. A Napoli trova il suo ciclope: un «guaglione, poverino, senza testa senza braccia senza gambe, senza corpo, solo con due scarpe sfondate e con una bocca», che chiede a mano aperta «dieci lì». Cede all'oleografia: cena da Ciro al Borgo Marinari, gira «come un pazzo» nella notte, fa l'alba a via Caracciolo sotto «un cielo avvampante, come non riuscisse più a nascondere il Paradiso». È un piccolo Malaparte sotto la forma portentosa e inquietante del Vesuvio, sulle «casacce terree» della periferia saluta i segni di «una civiltà scomparsa, per noi, e ancora così assoluta per chi ci vive». Già vede oltre.

Napoli per Pasolini è, nei «Comizi d'amore», un crocchio di bambini a cui chiede come nascono i bambini. Si danno di gomito, uno furbo dice «parla, ti dà mille lire»; uno risponde che li porta la cicogna, un altro tira in ballo, storpiando il nome, la «levatrice», uno furbo sbotta «nascono sotto le coperte».
Napoli per Pasolini è la poesia dialettale degli autori delle canzoni più belle, da Rocco Galdieri a Raffaele Viviani, dal Salvatore Di Giacomo di «Pianefforte e notte» (e della «meglio gioventù») a quel Ferdinando Russo che prima di lui in tanti, Benedetto Croce compreso, avevano denigrato.

Napoli per Pasolini è, nel 1970, la quinta del suo «Decameron» fedele e fedifrago. Prende le tre novelle napoletane del libro di Boccaccio, altre ne riambienta a Napoli, inventa la storia di un pittore giottesco venuto ad affrescare Santa Chiara, che fa da cornice alla narrazione. «Ho scelto Napoli», spiega, «contro tutta la stronza Italia neocapitalistica e televisiva». La sua è una Napoli-presidio, che esprime e patisce le stesse vicissitudini dell'artista, un oggetto di innata «simpatia». È la Napoli dei bassi e dei vicoli: povera, ignorante, «affettuosa» anche nel raggiro, immobile ma guizzante nella sua «cultura orale e istintuale» (parole di La Capria). «Coi napoletani mi sento in estrema confidenza», dirà ancora Pasolini, «perché siamo costretti a capirci a vicenda.

Coi napoletani non ho ritegno fisico, perché essi, innocentemente, non ce l'hanno con me». Tutto si condensa nella parlata. Il napoletano resta lingua schietta, verace, perfino sboccata, che resiste all'omologazione linguistica dettata dal capitalismo consumista e perpetrata dalla televisione. Perciò il regista decide di metterlo in bocca ai personaggi del suo «Decameron».

Col tempo, sempre più, Napoli per Pasolini diventa Napoli di Pasolini. «Io sono una forza del Passato», aveva scritto di sé nella raccolta Poesia in forma di rosa; di Napoli dice, parallelamente, che è una «sacca storica», una specie di riserva in cui «i napoletani hanno deciso di restare quello che erano, e, cosi, di lasciarsi morire». Il pensiero, nato in un dialogo con Dario Bellezza, si espande in un'intervista concessa ad Antonio Ghirelli durante la lavorazione del «Decameron». Pasolini, ricorda Ghirelli, scavalca le domande e detta una «pagina stupefacente». Il manifesto, forse definitivo, della napoletanità: «Io so questo: che i napoletani oggi sono una grande tribù che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg o i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare. Questa tribù ha deciso ... di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia o altrimenti la modernità. ... È un rifiuto sorto dal cuore della collettività, una negazione fatale contro cui non c'è niente da fare. Essa dà una profonda malinconia, come tutte le tragedie che si compiono lentamente; ma anche una profonda consolazione, perché questo rifiuto, questa negazione alla storia, è giusto, è sacrosanto». Anche la tribù dei napoletani è sedotta dal benessere, indotta o costretta al trasferimento in quartieri più decorosi: la modernità penetra e incalza. Vincerà, ma il suo prodotto saranno individui di una specie nuova, non scarti di una tribù modificata: «I napoletani hanno deciso di estinguersi, restando fino all'ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili e incorruttibili». Sottraendolo al vittimismo e alla necessità perenne di un riscatto, Pasolini dà al popolo napoletano una bandiera. Lo definisce attraverso il coraggio e l'ostinazione ad «essere sé stesso»: l'adesione all'imperativo della vera modernità (da Pasolini rubato a Oscar Wilde), all'autentico insegnamento di Cristo.

La Napoli inattuale, antimoderna, antistorica è più precisamente una Napoli trascendente e fiabesca, che Pasolini intercetta già a metà degli anni Sessanta attraverso la sua personificazione: Totò. Il «principe sottoproletario», che lascia mance come nessun vero principe osa, è il corpo e la faccia di Napoli, la sua quintessenza oscillante tra gli «estremi ristrettissimi dell'assurdo clownesco e dell'infinitamente umano». Come Totò Napoli è assurda - e sempre più nella modernità - perché infinitamente umana. Per tramite di Totò, appassionandosi all'idea di un teatro come «rito culturale», Pasolini arriva quasi in extremis anche a Eduardo. Il 24 settembre del 1975 in una lettera affettuosissima gli espone «Porno-teo-kolossal», il suo nuovo progetto cinematografico: per Eduardo ha pensato la parte di un re mago, garantendogli totale libertà interpretativa. Poi, nella notte tra i santi e i morti, l'eretico si purifica nel sangue sul lido di Ostia. Eduardo lo ricorda commosso come una «creatura angelica» e ne profetizza la crescente fortuna nell'immaginario culturale italiano. Gli dedica una poesia. Dal cuore della Napoli «tribale» viene a Pasolini un omaggio rituale, affidato a simboli atavici: i diciotto sassi che, sul lido di Ostia, delimitano lo «spazio sacro» del poeta scomparso e a capo di tutto la «spalliera» di Gesù, una croce elementare che traduce il tormento in vita del reietto e resta al suo posto «a darci la fede e la speranza in Cristo povero».

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