«Noi, sui treni dei bambini: così siamo scampati alla fame nel dopoguerra»

«Noi, sui treni dei bambini: così siamo scampati alla fame nel dopoguerra»
di Francesca Saturnino
Giovedì 12 Maggio 2022, 08:47
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«Si permettono di fare la guerra oggi: dovrebbero vergognarsi. Sono nato 15 gennaio 1941. Ricordo tutto. I sidecar, le motociclette, le mitragliatrici dei tedeschi. Le fughe nei ricoveri pieni di topi: avevo 5 anni. Dopo i bombardamenti sfollammo a Barra». Giovanni, detto «Cafierino», ha qualche anno in meno di Pietro Cafiero, classe 1937. I fratelli Cafiero, occhi di un azzurro cielo che ancora si sforzano dietro al banchetto da lavoro, sono decani orafi formatisi al Borgo Orefici come ragazzi di bottega molti decenni fa. Nativi di via Stretta delle Paludi, zona stazione, condivisero con gli altri tre fratelli un'infanzia di miseria «vendevamo le pietre di sapone porta a porta per poche lire» con una parentesi di felicità inaspettata che non dimenticano più. Nel 1947 furono messi su un treno assieme a decine di bambini. Destinazione: Emilia Romagna. La loro storia, comune a quella di tanti ex scugnizzi oggi ultraottantenni, è una vicenda a lungo dimenticata su cui libri degli ultimi anni hanno gettato luce: I treni della felicità di Giovanni Rinaldi da cui Giovanni Piva ha tratto il documentario «Pasta nera», che a sua volta hanno ispirato il caso letterario di Il treno dei bambini di Viola Ardone, quindi anche Gli occhi più azzurri, recente lavoro di Alessandra Cappiello.

I «treni della felicità», ormai lo sappiamo, nacquero da un'idea di Teresa Noce, battagliera dirigente comunista e partigiana, idea poi presa in carico dalle donne dell'Udi. Grazie a questi viaggi da un capo all'altro dello stivale, migliaia di bambini si salvarono dalla miseria della guerra.

A Napoli il Comitato per la salvezza dei bambini, coordinato dal Pci, si costituì nel 1946 e organizzò il soggiorno di oltre 12.000 scugnizzi presso famiglie del Nord. Pietro racconta che il treno era pieno: «Ci abbiamo messo un giorno e una notte ad arrivare». Giovanni ha un ricordo nitido: «Il trauma peggiore della mia vita è stato quando non ho più visto mio fratello. Partimmo insieme, lui aveva 9 anni, io 6. Sono sceso nella folla e non c'era più». I Cafiero sono stati accolti da famiglie contadine della zona di Calderara di Bologna per circa un anno e mezzo. «Avevano due figli: il maschio era mio coetaneo», dice Pietro. «La domenica mi facevano la pasta fresca. Fuori la neve era alta, in casa c'erano scaldaletto e lenzuola bianche e pulite che non avevo visto mai. Dopo il matrimonio, mi sono recato due volte a Bologna a cercare quella famiglia, volevo ringraziarli, sdebitarmi. Mi pare si chiamassero Gargiulo, non li ho mai più ritrovati. Mi piacerebbe incontrarli».

Il «Cafierino» non ha dubbi: «Ho trascorso un anno e mezzo a Calderara di Bologna come un principe. Quando arrivai ero sudicio. Avevo lunghi capelli biondi. Mi svestirono e mi lavarono, quando scoprirono che ero un maschietto scoppiarono a ridere. Erano contadini. Ricordo un signore, il più anziano, un nonno per me. Mi faceva spogliare tutti gli alberi carichi di ciliegie. Impazzivo dalla felicità. Tornati a Napoli, mi misero in collegio dove ho desiderato anche una caramella».

La storia dei Cafiero è simile a quella di Giuseppe Scotto, 85 anni, nato a Vico Zuroli a Forcella, ex «bancarellaro». «Eravamo 8 fratelli. Il nostro palazzo cadde in un bombardamento, venimmo a vivere in un basso che oggi uso come luogo dei ricordi. Persi papà a 7 anni. Per mangiare ci arrangiavamo. A via Pietro Coletta c'era un posteggio per carrozze. Mettevamo le mani nel sacco di avena e sciuscelle. Oppure mangiavamo i cornicioni delle pizze da Triumph alla stazione».

Giuseppe partì per l'Emilia col fratello Michele. Al loro arrivo c'erano delle suore che smistavano i bambini. Furono affidati a dei contadini. «Ci tolsero i vestiti e li bruciarono, per paura dei pidocchi. Una donna si mise alla macchina da cucire, all'alba i nostri abiti nuovi erano pronti». La zona era quella della riserva termale di Salse di Nirano, provincia di Modena. «Ricordo questo particolare: c'era una specie di Solfatara con ruscelli e acqua calda, ci portavano spesso a visitarla. Ci sono stato circa un annetto. Che periodo: lontano dalla fame di Napoli». In mezzo ai comunisti «mangiabambini» che in quegli anni accolsero migliaia di figli dal meridione distrutto dalla guerra.
 

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