Napoli sull'orlo del crac, dieci milioni di italiani vivono in Comuni falliti

Napoli sull'orlo del crac, dieci milioni di italiani vivono in Comuni falliti
di Marco Esposito
Martedì 11 Maggio 2021, 11:00 - Ultimo agg. 12 Maggio, 08:20
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Ci sono in Italia 812 Comuni - tra cui Napoli, Torino e Palermo - i cui conti rischiano di saltare per una doppia sentenza della Corte costituzionale; municipi di cui la gran parte, 627, è nel Mezzogiorno. Prima di provare a capire (la vicenda è complessa) come mai un sindaco, dopo aver rispettato la legge, si trova il bilancio da riscrivere, è il caso di chiedersi: perché i problemi sono concentrati al Sud? Perché nel Mezzogiorno sono colpite 7,2 milioni di persone (su 20 milioni) mentre al Nord il problema tocca 2,8 milioni di persone (su 40 milioni)? 

C'è una risposta facile e una complicata. Quella facile è che è colpa del Sud: i meridionali non sanno gestire i soldi pubblici, la classe dirigente è inadeguata, le persone non pagano le tasse e così via. Quella complicata ha a che fare con l'attuazione zoppa del federalismo fiscale, cioè del sistema introdotto venti anni fa nella Costituzione, in base al quale ciascuno è responsabile delle proprie entrate e delle proprie spese, ma tutti riceveranno entrate sufficienti per le spese necessarie a garantire servizi essenziali uguali sul territorio. L'attuazione è stata zoppa per due ragioni: non sono mai stati definiti i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni da garantire in tutta Italia; non c'è mai stata la perequazione, intesa come integrale copertura della minore capacità fiscale per abitante. L'attuazione del federalismo fiscale per i Comuni, in origine, doveva essere lenta e graduale per dare a tutti il tempo di adeguarsi.

Ma nel 2011 l'Italia fu travolta da una crisi finanziaria drammatica e a fine anno il nuovo capo del governo, Mario Monti, per salvare i conti decise di attuare d'un colpo alcuni pezzi del federalismo fiscale, prendendo una sigla (Imu, imposta municipale, di cui si sapeva soltanto che non avrebbe colpito gli immobili) per trasformarla in una gigantesca tassa sulla casa, con i sindaci costretti a fare da esattori e lo Stato centrale che incassava metà dell'importo. Subito dopo, con una raffica di tagli, i Comuni persero quasi tutti i trasferimenti e la perequazione se la dovettero gestire da soli misurando, a partire dal 2015, capacità fiscali e fabbisogni. 

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I tagli avevano colpito tutti, ma la capacità fiscale non è omogenea sul territorio per cui i Comuni ricchi avevano risorse a sufficienza, solo che erano chiamati a sostenere gli altri. Quando nel 2015 si fece il conteggio della capacità fiscale di imposte comunali, a fronte di 600 euro medie si andava da un minimo di 384 in Basilicata e un massimo di 872 in Liguria. Allora il Nord propose di calcolare anche le tasse Imu evase (tax gap) in modo da alzare il livello di capacità fiscale al Sud ma - con sorpresa generale - l'evasione era omogenea nei territori, anzi un po' maggiore al Nord per cui il divario si allargava. Quindi si decise di considerare il tax gap appena al 5%. Se non si può alzare la capacità fiscale al Sud, si possono però ridurre i diritti, grazie all'assenza dei Lep, mai approvati dal Parlamento. Per cui nel 2015 si stabilì che per alcune voci molto sperequate sul territorio, come gli asili nido e le mense scolastiche, il fabbisogno futuro da garantire fosse pari a quello storico, quindi se in una località mancava la mensa scolastica o l'asilo nido il fabbisogno riconosciuto a quei bambini era zero. Anche così, il Nord avrebbe dovuto staccare un assegno in favore del Sud, per cui ci si inventò la regola che la solidarietà sarebbe scattata «integralmente» al 45,8%, cioè per meno della metà. E visto che in quel 2015 soltanto il 20% del Fondo di solidarietà comunale si sarebbe dovuto redistribuire in base ai bisogni, la quota reale di solidarietà (pari alla moltiplicazione di 0,458 x 0,20) si fermò a circa il 9% e il rimanente 91% fu ripartito in base alla ricchezza.

I bilanci dei Comuni del Sud, con l'eccezione di quelli a vocazione turistica, erano destinati a saltare in poco tempo, però - proprio nel 2015 - la crisi finanziaria allentò la morsa e il sistema dei Comuni ricevette una boccata d'ossigeno: la possibilità (nel decreto legge 78/2015) di utilizzare un fondo chiamato Fal (Fondo anticipo liquidità) per compensare in parte il Fondo crediti dubbia esigibilità, cioè le somme che i municipi devono obbligatoriamente accantonare per la difficoltà di incassare tutto il dovuto, soprattutto per le multe. In pratica mentre il Nord ricco si sosteneva con la sua abbondante capacità fiscale, al Sud arrivava un misterioso prestito pubblico in proporzione ai crediti inesigibili. Cos'era? Un gioco di prestigio: lo Stato con una mano imponeva ai Comuni di accantonare una somma per i crediti difficili da riscuotere - facendo pulizia di cartelle che risalivano anche al 2000 - e con l'altra mano prestava i soldi ai Comuni (anticipo liquidità) in proporzione ai crediti inesigibili, quindi di più al Sud, fingendo che quella liquidità fosse appunto, liquida, cioè fatta di soldi reali. Per evitare che il castello di carte (false) crollasse in pochi mesi lo Stato decise, sempre per legge, che i conti andavano risanati in trent'anni, sperando che in tutto questo tempo nessuno alzasse il tappeto per vedere la polvere accumulata. I sindaci, quelli bravi come quelli scarsi, hanno firmato bilanci evanescenti eppure formalmente regolari. 

 

Il Sud quindi tra il 2015 e il 2020 non è fallito, nonostante l'assenza dei Lep e la perequazione ridotta a briciole. Ma la Corte costituzionale con due sentenze, la prima all'inizio del 2020 (numero 4) e la seconda quest'anno (numero 80) ha cancellato le leggi che consentivano di spalmare quasi all'infinito i debiti e in particolare il Fal, che anticipa una liquidità immaginaria e quindi è un debito privo di copertura. Ma un conto è restituire il Fal in trent'anni, come prevedeva la legge ora dichiarata incostituzionale, altra cosa in tre anni, come impone la sentenza più recente. A Torino, il ripiano annuale del Fal pesava per 18,6 milioni e adesso secondo le stime Ifel si sale a 86, quasi cinque volte di più. 

Come se ne viene fuori? La strada maestra è applicarla tutta, la Costituzione. Quindi sì alla correttezza contabile, ma sì subito all'approvazione dei Livelli essenziali delle prestazioni e a un sistema di perequazione che garantisca davvero ai Comuni di «finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite», come recita l'articolo 119, inattuato al pari del 117 sulla definizione dei «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». Resta però il macigno dei debiti storici. E qui si aprono due strade. Una è fare come con il debito di Roma: lo si è preso e lo si è caricato sulle spalle di tutti gli italiani. Ora però i Comuni sono 802 per dieci milioni di abitanti. L'altra strada è completare il federalismo demaniale assegnando al patrimonio dei Comuni tutti i beni pubblici non indispensabili e poi girare i patrimoni immobiliari dei Comuni in sostanziale dissesto alla Cassa depositi e prestiti, che ha già un fondo di gestione immobiliare, per compensare finalmente i debiti con qualcosa di solido.

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