Il contrappasso di Bassolino ​e i conti con la storia

di Adolfo Scotto di Luzio
Domenica 22 Novembre 2020, 00:00
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È difficile dare torto a Claudio Velardi che sul Foglio dello scorso 17 novembre, a proposito della diciannovesima assoluzione su diciannove processi intentati ad Antonio Bassolino, notava come dietro gli applausi e gli abbracci virtuali tributatigli in questi giorni da politici e giornali si nascondano alcune questioni che a distanza di quasi trent’anni, tanti quanti ne sono passati dalla vittoria alle elezioni comunali di Napoli nel 1993, stanno ancora tutte lì.

Questioni che coinvolgono gli ex comunisti e Bassolino in prima persona: la subalternità politica, innanzitutto, e l’uso strumentale che il Pci, i suoi eredi, fecero della magistratura e delle inchieste giudiziarie nel fatale passaggio dei primi anni Novanta. Il fatto, poi, che lo stesso Bassolino, inviato a Napoli come commissario dal suo partito per assumere il controllo di una Federazione travolta dalle inchieste, si servisse efficacemente del clima inquisitorio di quei mesi, dell’entusiasmo giustizialista che attraversava il Paese da Nord a Sud, per costruire la propria candidatura. Alle quali considerazioni, si può aggiungere la determinazione con la quale il sindaco di Napoli si mise sulla strada del partito personale, di quella nuova politica il cui avvento proprio le inchieste giudiziarie avevano favorito.

Un partito personale un po’ strano per la verità, che mentre si sbarazzava di tutti i vecchi e ingombranti apparati godeva della struttura sostanzialmente intatta del loro elettorato. Un voto comunista senza l’ingombro del vecchio partito. Destinato progressivamente a sfaldarsi, privo ormai com’era di legami organizzativi consistenti, sprovvisto di simboli attorno ai quali raccogliersi, e che lasciava la “persona” del nuovo politico sempre più in balia di interessi di tipo particolaristico. 

In qualche modo, l’apparato si è vendicato del suo liquidatore. Alla fine la macchina giudiziaria, che doveva sbarazzare il campo dai nemici, ha travolto Bassolino e anche se oggi egli può meritatamente e orgogliosamente rivendicare il suo trionfo, il prezzo pagato tanto sul piano personale che su quello politico è stato enorme. Su questa vicenda, tuttavia, non c’è stata e non c’è nessuna seria riflessione in quel mondo che oggi si chiama “sinistra” e che nel Partito democratico, di cui Bassolino va ricordato è tra i fondatori, raccoglie un pezzo non secondario dell’estrema vicenda del Pci. Hanno perciò un sapore insopportabile le dichiarazioni di uomini come Andrea Orlando il quale proprio con riferimento alla storia politico giudiziaria dell’ex sindaco di Napoli si chiede se, ora che è chiusa, non sia il caso di “andare a vedere che cosa non ha funzionato nel sistema, qual è il cortocircuito che si è determinato?”

Viene da domandarsi a chi lo stia davvero chiedendo avendo egli ricoperto per più di quattro anni, tra il febbraio del 2014 e il giugno del 2018, la carica di ministro di grazia e giustizia. 
La verità è che lungo tutto il ciclo della cosiddetta seconda Repubblica, quella che appunto oggi si chiama sinistra ha affidato ai magistrati un ruolo abnorme, consentendo culturalmente (nei discorsi, nei modelli divulgati e proposti all’opinione pubblica, nei simboli) a qualsiasi forzatura dei rapporti costituzionali tra ordini dello Stato. La stesse ragioni che Walter Veltroni oppose nel 2008 alla presenza sul palco di piazza Plebiscito di Bassolino appartenevano in pieno a questa subalternità e forse si può dire connivenza culturale con il primato dell’inquisitore. Le inchieste erano modi per regolare conti di natura politica, anche tra compagni di partito.

Chi ne era toccato ne riceveva una macchia e veniva distrutto. L’arrivo di Berlusconi sulla scena ha fatto il resto. Così inatteso, così sottovalutato da chi appunto aveva in cuor suo affidato ai magistrati il compito di sbarazzare il campo dagli avversari, ha significato un ripiegamento massiccio di tutta una vasta area politica e sociale, in Parlamento e nel Paese, sul fronte dell’opposizione giudiziaria al governo. Sono stati i vent’anni del Caimano e delle dieci domande ossessivamente reiterate sulla prima pagina de “La Repubblica”. Vent’anni di storia repubblicana in cui è maturato uno spirito pubblico che nel linguaggio anonimo della comunicazione è diventato “giustizialismo” prima di svolgersi in “antipolitica”. Ci siamo dentro fino al collo. 

Le conseguenze napoletane non sono state diverse. Un giudice, un pubblico ministero, da dieci anni alla guida della città, con esiti che non mette conto nemmeno commentare. A lungo il suo vicesindaco è stato il pubblico accusatore di Bassolino, Tommaso Sodano, non uno di destra, ma un senatore comunista nelle fila di Rifondazione per due legislature. A ricordarci appunto di cosa è impastata la cultura politica della cosiddetta sinistra a Napoli e in Italia. Nel suo curricolo sta in bella vista il titolo di aver dato inizio alle inchieste contro Bassolino. Ora, tutto questo si pone non solo in relazione ad una generica storia delle culture politiche nell’Italia al tramonto della Repubblica dei partiti, ma perché, come faceva notare ancora Velardi, l’arrivo dell’assoluzione aggancia con tempismo perfetto la ruota del grande ingranaggio delle elezioni del sindaco. Bassolino, si sa, punta a tornare a Palazzo San Giacomo. Ci ha già tentato e sta lavorando alacremente all’impresa. Ora la questione che dovremmo porci è la seguente e non riguarda la persona di Bassolino, la sua onestà, la tempra gloriosa di dirigente comunista, ma l’idea che trent’anni fa lo portò al governo della città. Bassolino infatti incarnò un autonomismo di matrice comunista, la famosa e mai ben chiarita Repubblica delle città, che si è rivelata del tutto irrealistica (negli stessi anni il processo di Maastricht dava a questa espressione ammesso che significasse qualcosa una ben altra accezione, favorendo sì processi di autonomizzazione regionali e macroregionali ma a scapito delle aree più svantaggiate e non certo in chiave solidaristica. Milano tanto per dirne una si è messa sulla stessa strada, ma con ben altre capacità e non ha mai guardato a Napoli). 

La verità è che negli anni è apparso tragicamente evidente come esauritosi lo slancio del secolo industriale e dovendo fare i conti con il tempo della “dismissione”, Napoli non è più riuscita ad elaborare nessun vero modello per mezzo del quale pensarsi nella trasformazione. Quello che è successo dopo è stato solo l’estremo, degradato, lascito di una visione che fin dall’inizio non doveva portare a niente. Il punto sta tutto qui. La riconquistata agibilità politica, l’onore restituito, mettono paradossalmente Bassolino non di fronte alla sfida per riconquistare una città allo stremo ma innanzitutto a sé stesso, alle illusioni di trent’anni fa, davanti alla necessità di riconoscere negli esiti miserevoli di oggi lo sviluppo conseguente di una idea di città che non viveva di niente se non della sua autorappresentazione. Un’idea che proprio Bassolino per primo sebbene con altri mezzi impose ai napoletani.

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