In vendita le memorie di Bovio. Le eredi: «Facciamo un museo»

In vendita le memorie di Bovio. Le eredi: «Facciamo un museo»
di Pietro Treccagnoli
Domenica 16 Novembre 2014, 23:42
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Il nonno Giovanni, filosofo repubblicano (a lui è intitolata la piazza della Borsa), il padre Libero, poeta e drammaturgo, autore di tante fra le più celebri, le più amate canzoni napoletane, il figlio Aldo, giornalista di lunga esperienza, scomparso sette anni fa.

I Bovio, una dinastia della cultura napoletana, e la loro casa di via Duomo dove è posta la lapide con il distico dell’autore di «Reginella», «Guapparia» e «Lacreme napulitane»: «... E j so’ napulitano e si nun canto moro!».



Sono testimonianze di un legame che non può essere ridotto, dai soliti impenitenti detrattori, a pura oleografia, perché Napoli è anche, e forse soprattutto, un sentimento. Lo sa bene chi, da napoletano, a Napoli non ha più residenza e associa l’immagine della propria città a una melodia, a un suono, a un verso.



«La canzone di Napoli è ambasciatrice di pace nel mondo» scriveva proprio don Liberato nel 1938. «È voce d’Italia in terra straniera. È grido di amore, ma è segno di forza. È sempre profumata di malinconia, anche quando è allegra». Ora la casa dei Bovio è vuota, malinconica, ma sotto sotto sempre allegra.



Tra questi mobili, per i quali il tempo sembra essersi fermato agli anni Quaranta, finché visse il poeta, con i suoi libri, i quadri, i manoscritti, gli spartiti, le fotografie, in queste stanze tutte per sé ha abitato, fino a qualche mese fa, sebbene non costantemente, la moglie di Aldo, Felicita, scomparsa a settembre.



Era stata la compagna di gran parte della vita di Aldo, sposata prima della sua di scomparsa. Ora non c’è più nessuno e l’appartamento, con tutto quanto di prezioso contiene, è stato ereditato dalle figlie di primo letto della signora Felicita: Giovanna, Ida e Angela Lillo che vivono al Nord.



Per loro, che pure hanno frequentato la casa di via Duomo, ora c’è da sistemare prioritariamente le scartoffie della successione, ma per poter poi vendere tutto. «Siamo legate alla memoria di Aldo e di nostra madre che ha voluto essere seppellita a Napoli» spiega Giovanna.



«Però la nostra vita non è qui e non siamo in grado di mantenere e valorizzare queste memorie». E sì, di grandi memorie non solo familiari, ma anche cittadine, si tratta. L’appartamento sarà venduto. In quest’epoca di recessione immobiliare troverà, comunque, un compratore.



Che cosa ne sarà, allora, della montagna di documenti, di questa valanga di ricordi, di tracce, di emblemi crepuscolarmente gozzaniani di Napoli che canta e se non canta muore? «Non abbiamo la capacità di gestirlo» ammette Ida. «Neanche di inventariarlo».



Per mettere ordine tra gli scatoloni impolverati c’è bisogno di un occhio e di una mano competenti. Lo stesso vale per quadri e sculture che tre generazioni di Bovio hanno accumulato dietro le tende che attutiscono i suoni e i rumori della strada. «Abbiamo preso contatto con librai antiquari» racconta Giovanna.



«Si sono offerti di comprare tutto in blocco, proponendo cifre irrisorie, irricevibili. E, svendendo in questo modo, c’è il rischio concreto che una grande eredità culturale finisca smembrata, si dissolva».



Quindi? «L’appartamento andrà sgomberato, prima o poi. Ci piacerebbe che tutto approdasse in mani sicure. Magari un collezionista privato, capace di stabilire un prezzo giusto a quanto hanno lasciato Giovanni, Libero e Aldo».



Oppure? «Un’istituzione pubblica se ne facesse carico per allestire un museo, dedicato a Libero, alla sua canzone, ma anche a tutta la canzone napoletana. Affidare a rigattieri un tesoro del genere sarebbe un peccato per Napoli». Aggirarsi per le stanze di casa Bovio è un viaggio nel tempo, un percorso a ritroso negli anni, fatto anche di foto con dedica: di Roberto Bracco, di Curzio Malaparte, di Gabriele d’Annunzio, di Pietro Mascagni».



Si scivola in un romanzo familiare e contemporaneamente nella frenesia culturale e spettacolare che dalla Belle Epoque, attraverso due guerre e il fascismo, approda agli anni Cinquanta. Su uno scaffale sono appoggiate pile di dischi di vinile con musica di ogni tempo.



Nei cassetti dei tavoli, ingombri di pacchi, si potranno scovare manoscritti e rarità. E poi altre dediche tenerissime come quella fatta da Libero sul frontespizio di «Cuore», regalato alla figlia Bianca: «A Biancuccia mia, perché ami questo libro. Papà suo».



Sui mobili, un’invasione di ninnoli di ogni tipo, con una prevalenza di simboli napoletani, Pulcinella compreso. Nel salottino troneggia, in una scarabattola, un presepe con antichi pastori. Poi ritagli di giornali, riviste, quaderni, frammenti di un discorso musicale.



È più quello che non si vede, che può essere scoperto, che quanto spunta dalla polvere, dalle cartelline che mostrano indicazioni generiche, note forse solo a Libero o ad Aldo. È un piccolo grande mondo antico e moderno che chiede luce, che implora di essere restituito a chi ripete i versi di «Reginella» o «Tu ca nun chiagne» e li riconosce subito come propri, inalienabili.
Non solo di don Liberato, di Napoli e del mondo intero.
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