Racket a Napoli, il boss di camorra si scusa e risarcisce le imprese

Racket a Napoli, il boss di camorra si scusa e risarcisce le imprese
di Leandro Del Gaudio
Lunedì 20 Luglio 2020, 23:00 - Ultimo agg. 21 Luglio, 10:17
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Quando un anno fa scattò il blitz - quello con decine di arresti per la grande torta del racket cittadino -, si guardarono bene dal farsi avanti. Anzi. Sono rimasti mesi in silenzio, lontano dai riflettori, evitando anche di costituirsi parte civile, pur essendo stati indicati come parte offesa nel corso del processo alla camorra cittadina, quella che ha ritardato il restyling di via Marina. E, invece, appena pochi giorni fa, sono comparsi in aula. Erano in tre, lavorano nel campo dei trasporti e dei rifornimenti su ruote e rotaie. Hanno accettato gli assegni staccati da un presunto camorrista, firmati a mo’ di conciliazione, come se fosse una sorta di risarcimento del danno, come avviene dopo un incidente stradale in cui c’è chi ammette di aver fatto una manovra sbagliata. 

Strana storia dall’aula bunker di Napoli. Dinanzi al giudice Campanaro, va di scena la parte conclusiva del processo a carico - tra gli altri - di Antonio Montescuro, il figlio del presunto boss di Sant’Erasmo, una sorta di Svizzera cittadina, per la capacità dell’anziano Carmine «Zi ‘menuzzo» di mediare al tavolo della pace tra appetiti diversi: di trovare cioè una sintesi tra la pressione dei clan di Secondigliano (rappresentati dai Rinaldi) e quelli dei Mazzarella. Niente guerra, solo affari, era il verbo del presunto «sindaco» di Sant’Erasmo. E sui lavori di via Marina, soldi a tutti: niente frizioni, siamo nella piccola Svizzera di Sant’Erasmo. Tutto chiaro? Oltre venti arresti, colpita l’ala criminale, si finisce dinanzi al giudice. Aula bunker, Antonio Montescuro, figlio incensurato del boss di Sant’Erasmo, fa un gesto inedito, almeno per quanto riguarda il panorama delle inchieste sul racket. Mostra al pm e al giudice raccomandate e assegni circolari spediti a tre imprenditori, che avrebbe contribuito a taglieggiare in prima persona per conto del padre, con alcune richieste di denaro. Operazione limpida sotto il profilo formale - bene chiarirlo - dall’inevitabile impatto processuale, che strappa comunque il riconoscimento delle attenuanti generiche da parte del pm (che non esita però a chiedere una condanna esemplare: diciotto anni di reclusione, anche al netto dello sconto di un terzo della pena previsto dal rito abbreviato). Operazione chiara, preceduta da una lettera dello stesso Antonio Montescuro in Procura, finalizzata a prendere le distanze dalle strategie paterne, il boss della piccola Svizzera, appunto. 

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Ma restiamo al confronto in aula. C’è la richiesta di risarcimento dei danni, ci sono tre raccomandate e tre assegni firmati da Montescuro jr sul tavolo del giudice. Difeso dai penalisti Enrico Di Finizio e Annalisa Senese, Montescuro va fino in fondo e prova a chiudere i conti con il passato di estorsore (su mandato paterno), chiedendo scusa ai propri «clienti». Ed è a questo punto che la parola è passata a loro, alle parti offese. Potevano rifiutare, potevano chiedere di andare fino in fondo, chiedendo di formalizzare la loro propria presenza in aula come parte civile, magari di svolgere un ruolo propositivo nel corso dell’intero processo. Assenti in fase di denuncia, lontani dal procedimento penale, anche quando ad ottobre del 2019 gli uomini della Mobile misero a segno oltre venti arresti, hanno fatto capolino ora nel bunker della Ticino uno. Solo adesso hanno accettato l’assegno, incassando poche centinaia di euro a testa, decisi ora più che mai a chiudere i conti con quella che hanno vissuto come una sorta di grana. Una stretta di mano virtuale tra vittime e aggressori, imprenditori e camorristi, parte sana dell’economia e racket. Con tante scuse a tutti. 

Ma è toccato poi al pm formulare la richiesta di condanna. Inchiesta condotta dai pm Antonella Fratello e Simona Rossi, pochi fronzoli, si va dritto all’analisi del capo di imputazione, formulato su intercettazioni telefoniche e ambientali, le dichiarazioni di alcuni pentiti e un lungo lavoro di appostamento. Si arriva alla richiesta di condotta: 18 anni per Antonio Montescuro, venti anni per Nino Argano (presunto braccio destro del boss Montescuro senior), che si è guardato bene dal confessare o dal provare a risarcire il danno. Altra storia il processo ordinario a carico dell’84enne Carmine Montescuro, mentre si attendono gli esiti di un altro filone di indagine nato sempre sugli appalti di riqualificazione di intere aree cittadine.

Ricordate il caso? Lavori al porto, ma anche al centro storico, con pesanti coinvolgimenti di ex esponenti della macchina amministrativa e imprenditori dal volto pulito. Anche in questo caso si attendono gli esiti di inchieste e dibattimenti, tanto per capire cosa è accaduto in questi anni: lì all’ombra delle palme esotiche, nel cuore della piccola Svizzera napoletana. 

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