Coronavirus, fase 2 a spese del Sud: «Sospendere quota 34% di investimenti»

Coronavirus, fase 2 a spese del Sud: «Sospendere quota 34% di investimenti»
di Marco Esposito
Domenica 19 Aprile 2020, 00:00 - Ultimo agg. 18:10
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Solo una bozza. Certo. Ma il titolo è significativo: «L’Italia e la risposta al Covid-19». In 149 pagine su carta intestata della presidenza del Consiglio dei ministri si disegna la strategia di rilancio dell’economia eliminando il più possibile i vincoli. E tra i macigni da rimuovere ci sono gli impegni di spesa per il Mezzogiorno.

Dà fastidio in particolare l’obbligo previsto per legge dal 2016, ma entrato in vigore solo quest’anno, di destinare al Sud una quota di investimenti ordinari almeno pari alla popolazione residente e cioè il 34%. Questa regola viene da lontano perché vuole sanare lo strabismo dell’Italia quando c’è da fare investimenti pubblici ordinari, che destina da sempre al Mezzogiorno una quota inferiore (27-28%) rispetto alla popolazione residente. Il 34% tutela i cittadini della Campania e delle altre sette regioni dell’Italia meridionale, ma la tutela, secondo la proposta contenuta nel documento, va «sospesa» sino a una data che nella bozza ancora non è definita. E non basta. Per finanziare il rilancio dell’economia si punta non soltanto a prendere 10 miliardi di euro di fondi europei del ciclo 2014-2020, destinati in gran parte a Campania, Puglia, Sicilia e Calabria; ma anche a far cadere la regola dell’80-20 del Fondo di sviluppo e coesione, cioè l’obbligo di ripartire (negli anni) i 68,8 miliardi dell’Fsc per l’80% del Mezzogiorno. Tale regola, si riconosce nel rapporto, ha come fonte l’articolo 119 della Costituzione che impone interventi speciali per rimuovere gli squilibri economici e sociali e però, secondo il governo, le due percentuali devono essere cambiate a danno del Mezzogiorno. 

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A leggere gli obiettivi del piano, non si comprende che necessità ci sia di sottrarre risorse e diritti al Sud. Nel dossier si evidenzia la necessità di rafforzare la rete sanitaria e tutti i dati certificano come essa sia più fragile nel Mezzogiorno. Si sottolinea la necessità di annullare il digital divide a partire dalle scuole ed è noto che la difficoltà di connettersi al web è più grave tra gli studenti meridionali. Si sottolinea la necessità di rafforzare il trasporto pubblico locale, migliorare le periferie, riparare strade, ponti, viadotti, mettere in sicurezza le scuole, perseguire politiche di tutela ambientale, rendere efficienti le reti idriche. E di tutti questi interventi c’è necessità nel Meridione. Certo, non soltanto al Sud ma di sicuro in misura più intensa dove i problemi sono maggiori. A che serve quindi togliere la quota del 34% cioè affermare l’intenzione di non investire al Sud nemmeno un livello minimo pari alla popolazione residente?
 

 

Nel documento la risposta è questa: «A seguito dell’esplosione della crisi sanitaria e delle sue conseguenze economiche nel Paese si rende necessario operare una sospensione del criterio di riparto delle risorse dei programmi di spesa in conto capitale finalizzati alla crescita o al sostegno degli investimenti, consentendo all’Autorità Politica la valutazione delle zone ove concentrare la maggior quantità di risorse per investimenti in considerazione del mutato scenario sociale e produttivo». Quindi il 34% non è stato applicato fino al 2019 e non sarà applicato nel 2020 perché lo scenario è «mutato». Si torna cioè ai criteri del 2019 e di tutti gli anni precedenti, in cui gli investimenti in sanità, infrastrutture, scuole si sono fatti con un occhio di riguardo al Centronord, andando oltre il 66% che spetterebbe in base alla popolazione.

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Per trovare i soldi si guarda in particolare ai 2.988 milioni che la Campania non ha ancora speso per il Fesr (la scadenza è il 2023) e i 642 milioni del Fondo sociale europeo destinati alla Campania. E sono nel mirino anche i 5.189 milioni della Puglia, i 3.687 della Sicilia e i 1.681 della Calabria (tra Fesr e Fse). I conti esatti ancora non ci sono, anche perché si sospetta che vi siano dei «progetti fantasma», sfuggiti ai monitoraggi e però attivati, per cui gli impegni di spesa non possono essere riprogrammati. Si punta soprattutto ai fondi Ue del ciclo 2014-2020 perché di soldi freschi c’è poco da aspettarsi. Il Mes, al di là delle polemiche politiche, è un finanziamento da restituire. Persino il programma Sure da 100 miliardi destinato a finanziare la cassa integrazione - ideale per tamponare la crisi del lavoro dove il lavoro c’è (e quindi soprattutto al Nord) - in realtà come si spiega nel rapporto non è un atto di generosità europeo ma soltanto un prestito e quindi attivarlo fa salire il debito. Togliere al Mezzogiorno invece non fa danno ai conti pubblici statali.
 

Eppure il piano contiene elementi interessanti per rendere la ripresa l’occasione per fare dell’Italia un paese meno stretto da vincoli burocratici. Si introduce il principio che i Comuni non devono comunicare dati che le altre amministrazioni pubbliche conoscono già. Si estende il Metodo Morandi a tutti gli appalti locali di almeno un milioni di euro. Si punta, con una scelta strategica coerente con l’obiettivo di partire in fretta, a tanti piccoli lavori di 50-100-150mila euro da affidare ai Comuni piuttosto che a lavori impegnativi che richiedono anni per trasformarsi in cantieri. E però si decide di orientare le risorse verso Nord, sia con scelte esplicite come la sospensione della clausola del 34%, sia con scelte implicite come quella di finanziare in maniera massiccia i piccoli Comuni, quelli con meno di 5.000 abitanti, ben sapendo che sono soprattutto in Piemonte (1.045) e in Lombardia (1.034) contro i 338 della Campania e gli 85 della Puglia. Per un Comune di mille abitanti è previsto un finanziamento spot da 50.000 euro da spendere in lavori urgenti e per una città come Bari o Napoli una somma che a confronto appare ridicola: 250.000 euro. Sarebbe sufficiente assegnare le risorse agli enti locali in proporzione agli abitanti e il 34% verrebbe rispettato in automatico. Troppo facile?
 

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