L’emergenza minori è, in realtà, sempre una emergenza adulti. Dietro ognuno di questi bambini immersi nella mala vita o nel disagio c’è un maggiorenne perduto che doveva prenderli per mano. Genitori che hanno smarrito il significato di questa parola. Guide che non conoscono la strada. Riferimenti senza una bussola. Bisogna guardare sempre dietro le spalle di questi ragazzini che in età scolare spacciano, o impugnano armi, e le esibiscono sui social, per capire i perché. Quello che è emerso dall’inchiesta di Torre Annunziata, nei giorni scorsi, è solo l’ultima conferma. Chi c’è dietro di loro? C’è spesso un padre 30/40enne senza la spina dorsale di una cultura, una madre adulta solo sulla carta, senza l’ossatura di un codice. E non è questione di bene e di male, perché anche quella criminale da sempre è una cultura – intesa come reticolo di idee guida -, anche quello dei clan è un codice – inteso come sistema di regole -. In passato, nel transito generazionale, avveniva anche la trasmissione di un ordine, magari volto al male, ma dentro un pensiero tragico e perentorio: profitto e ferocia, nulla al caso. Qui, invece, sembra saltata ogni logica. Ogni intelligenza strategica. Ogni argine. Perfino ogni legame tra il comportamento e il tornaconto, caposaldo del reato. Manca, con tutta evidenza, un esempio da seguire, a questi bambini.
Oppure per i minori è proprio questo l’esempio: una insostenibile vacuità dell’essere, la spregiudicatezza di chi non solo viola le più elementari regole naturali (proteggere il figlio) ma sembra addirittura inconsapevole di sé stesso, della gravità dei suoi comportamenti.
Mamme che pubblicano con fierezza sui social le foto dei loro bambini con una pistola in mano come è accaduto nel rione “Poverelli” di Torre Annunziata. Genitori che mandano i propri figli a consegnare dosi di cocaina. È lo svuotamento di ogni coscienza, ed è qui il problema.
Lo psicanalista Massimo Ammaniti li chiama “adultescenti”: adulti che continuano a essere teen ager, pieni di loro stessi, che rifiutano gli anni che passano, eterni adolescenti, mentre i loro figli si avventurano alla ricerca di un esempio che non trovano, e crescono così, barche senza rotta in mari spesso in tempesta.
È evidente che la criminalità minorile non può essere affrontata senza uno sguardo ampio e lungo su educazione e società, quindi scuola, servizi sociali, agenzie educative del territorio, nella loro connessione con famiglia ed economia. Ma questo è per sua natura un lavoro che richiede tempo: è una semina. Se oggi raccogliamo questi frutti è perché evidentemente si è seminato male in passato: si sono lasciate crescere nell’abbandono e nella marginalità, intere generazioni; si è fatto finta di non leggere i numeri dell’evasione scolastica, per esempio, o della mancanza di assistenti sociali negli organici dei Comuni. Ci si è consolati con la ritualità dell’educazione alla legalità, che nelle scuole non è quasi mai riuscita ad andare nel profondo: arrivava a chi era già predisposto, senza mai sfondare i muri veri. Rifare la semina, quindi; riannodare i fili dell’educazione territoriale e rimettersi al lavoro. Ma intanto? Nel frattempo che questo nuovo sentire produca – si spera – nuovi frutti, che si fa?
L’emergenza è qui e ora e insieme a una strategia per il medio-lungo periodo ne andrebbe approntata una per il periodo brevissimo. Non sui bambini di domani ma su quelli di oggi: che ne facciamo? Li consideriamo perduti o abbiamo idee e azioni per tentare un vero recupero? Queste domande, come le giovani vite, attendono risposte e magari anche qualche buon esempio.