La crisi di governo
dei calcoli ​sbagliati

di Mauro Calise
Lunedì 18 Gennaio 2021, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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Il giudizio più lapidario – e semplice – è quello del segretario Pd. Ci sono dieci chiavi di lettura – e almeno altrettanti esiti possibili – per la crisi in cui sta ballando il governo. Ma nessuna spiegazione è riassumibile in parole semplici e chiare, che il Paese possa comprendere. Per il cittadino comune, alle prese con la peggiore debacle economica da quando è nata la Repubblica, il caos di questi giorni è incomprensibile.

Ogni interpretazione si muove dietro le quinte, anzi dietro le telefonate, e dietro calcoli e secondi fini che saranno pure il pane del potere. Ma non appartengono più, ormai da un pezzo, al lessico – e relative narrazioni – della scena politica ad altissimo tasso comunicativo in cui oggi ci ritroviamo ad agire. È una crisi da Prima repubblica precipitata come un meteorite sul palcoscenico della Terza. 

L’errore maggiore di Renzi è stato questo. Proprio lui, che era stato l’alfiere del rinnovamento spazzando liturgie arrugginite e i loro interpreti, ha aperto la crisi in nome dei numeri in parlamento. Peraltro – come trenta o quarant’anni fa – imperscrutabili, ballerini, infidi.

Consegnandosi allo scherno di D’Alema, «il leader più impopolare del paese che si mette di traverso al più popolare». Guadagnandosi i riflettori non grazie all’azione di governo e al rapporto con l’elettorato – la più dirompente innovazione dei suoi primi due anni a Palazzo Chigi – ma al drappello di parlamentari scissionisti di un altro partito. Il dramma del senatore di Rignano sta tutto qui. Quale che sarà la conclusione di questa kafkiana vicenda, Renzi sta picconando Renzi. È sceso in campo contro l’immagine – e il ruolo – di un presidente del Consiglio decisionista e centralizzatore. Rimproverando a Conte proprio quello che lui stesso era stato, più di ogni altro suo predecessore. 

La dinamica della rapida ascesa della popolarità di Renzi fu la stessa che oggi soffia nelle vele dell’avvocato-professore. La democrazia del leader premia chi il potere ce l’ha, e lo esercita.

A scapito dei partitini costretti a cuocere nella propria invidia. Nella fase emergenziale in cui ci ritroviamo, sarebbe impensabile avere un premier poco decisionista e accentratore. È questo l’unico dato che gli elettori percepiscono, nello stato confusionale – come recita la copertina dell’Espresso – della Democrazy, democrazia impazzita. E qui alle contraddizioni di Renzi si sommano quelle del Pd. Non v’è dubbio che l’ex-premier si sia spinto fin dove si è spinto perché ha trovato una sponda nel Pd. Che non vedeva di cattivo occhio l’ipotesi di ridimensionare il protagonismo di Conte. Ma, arrivati allo show-down, la corda rischia di spezzarsi. 

L’ipotesi oggi più accreditata è che Conte incassi martedì una fiducia risicata, e riceva dal Colle il mandato di rimescolare il suo governo, senza dimissioni preventive. A quel punto tutti – anche Renzi? – rientrerebbero in gioco e intorno al tavolo. E il nuovo esecutivo vedrebbe la luce con il concorso dei neo-centristi riconvertiti e integrati nella vecchia alleanza. Ammesso che riesca la ciambella, e non succeda che lasciata troppo in cucina si trasformi in una frittata, che vantaggio ne ricaverebbe il Pd? Qualche oligarca di maggior peso in qualche ministero importante? E i Cinquestelle chi dovrebbero far fuori, per fare posto ai nuovi arrivati? E il neo-partito dei neo-centristi dovrebbe accontentarsi delle briciole? Nel migliore – peggiore? – dei casi il Pd potrebbe gioire di avere sbriciolato una sua costola rilanciandone una del centrodestra. Lasciando comunque Conte a condurre le danze, e le finanze. 

La realtà è che siamo arrivati a questo punto perché in troppi hanno accarezzato l’ipotesi di liberarsi del Premier. Renzi in primis, e poi tutti coloro che volevano utilizzarlo come ariete. Ma per sbalzare Conte di sella, ci vuole un altro leader disposto a giocarsi la partita, e la testa. Non con una manovra di Palazzo, come usava nella Prima repubblica. Ma in campo aperto, come si fa nella Terza. In assenza di questa alternativa, la crisi resta ingestibile. Anzi, peggio ancora: incomprensibile.
 

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