L'importanza della qualità
dei candidati

di Eugenio Mazzarella
Lunedì 8 Agosto 2022, 00:00 - Ultimo agg. 10:30
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Le prossime elezioni politiche cadano in un momento cruciale per il Paese. C’è il Pnrr da portare a compimento, una crisi internazionale senza precedenti, i segni certi di un autunno socialmente ed economicamente più rovente di questa torrida estate. E il tutto accade in una situazione di allarme rosso sul piano della capacità di tenuta del sistema della rappresentanza democratica. Da decenni è in crisi, e ne fa fede il sempre più maggioritario partito dell’astensione.

Una recente indagine dell’istituto Tecnè ne mostra il lato più oscuro e pericoloso: l’espulsione e/o l’autoesclusione dei ceti popolari dalla struttura della rappresentanza, quello che con la Dc e il Pci, i grandi partiti di massa, era stato un architrave e un vanto della rinata democrazia repubblicana dal 1948 in poi. L’analisi della struttura interna della sempre più massiccia astensione elettorale ha confermato in modo plateale un dato ormai acclarato. La diserzione dal voto dei ceti più disagiati, sempre più convinti che la politica non li rappresenti, e quindi dell’inutilità del voto. In sostanza, dal campione esaminato (le ultime amministrative), emerge che solo il 28 per cento degli elettori a basso reddito è andato al seggio. Le percentuali salgono per la classe a reddito medio (63 per cento) e soprattutto per i redditi alti (79 per cento). «Con una battuta, possiamo dire – ha chiosato il presidente di Tecné, Buttaroli – che il destino delle periferie di Roma si decide ai Parioli. E lo stesso vale per Palermo o per Genova, due delle più grandi città al voto in questa tornata». 

È una situazione che non può reggere. La legislatura che così disgraziatamente si è chiusa poteva porre parziale riparo con una legge elettorale proporzionale, e il ritorno alla preferenza senza rendita di assicurazione di ceto politico propria degli attuali listini del Rosatellum, per provare almeno a rimotivare la partecipazione sui territori e dei ceti che più si sentono fuori dal “gioco” democratico che li ignora. 

Così purtroppo non è stato. Ma forse in extremis un segnale si può dare. E potrebbe essere questo: i due schieramenti differenzino nettamente la loro offerta politica nelle liste tra plurinominale e uninominale. Sui listini plurinominali ognuno tra partiti e liste corra come gli pare. Su tutti i collegi uninominali ognuno dei due schieramenti proponga invece una squadra di personalità civiche e/o politiche indiscutibili per curriculum e credito personale, che possano essere votati in modo unitario nell’area di centrodestra dalla coalizione di Fdl, Lega e Fi, e in quella di centrosinistra dal Pd ai Cinquestelle. Sarebbe una novità dirompente, che potrebbe riallineare ai nastri di partenza le chance dei due schieramenti, costringendo tutti a migliorare l’offerta di personale politico quanto meno sull’uninominale; cosa che sarebbe altamente necessaria – ricucendo un filo di maggiore tenuta con i territori e con il civismo – in un Parlamento che avrà numeri ristretti, e proprio per questo dovrebbe essere rimpolpato di “qualità” politica e di competenze. Il centrosinistra ne avrebbe il vantaggio di smettere di litigare sulle note di Jannacci, quelle di «vengo anch’io, no tu no», una scena abbastanza penosa di questi giorni; il centrodestra ne avrebbe una legittimazione di governo, ripetendo in grande stile la “campagna acquisti” di qualità politica e intellettuale che Berlusconi fece nel 1994. I tempi sono stringenti, ma non è mai troppo tardi per fare una buona cosa per il Paese.
 

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