Il golpe in Sudan e i populismi africani

di Fabio Nicolucci
Lunedì 25 Ottobre 2021, 23:47 - Ultimo agg. 26 Ottobre, 06:02
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Soffia sempre più impetuoso il vento del nuovo populismo africano, che in nome di uomini e ricette più autoritarie dipinte come più efficaci sta spazzando via una dopo l’altra le gracili e monche democrazie africane. 
A due anni dalla caduta nel 2019 del trentennale dittatore Omar al Bashir in seguito a vaste dimostrazioni popolari, si è infatti rotto anche in Sudan il faticoso equilibrio tra civili e militari.

Ieri il generale Abdel Fattah al-Burhan Capo dello Stato de facto ha rotto gli indugi. Dichiarando lo stato di emergenza, dissolvendo il consiglio di transizione misto tra civili e militari da lui presieduto e arrestando il premier civile Hamdok che ha guidato il paese negli ultimi due anni. E come insegna il manuale del golpe nel nuovo millennio, la prima mossa è stata di bloccare l‘accesso a Internet. 

Il Sudan, come ogni paese, ha la sua storia e la sua specificità. Da sempre molto povero, sin dalla sua indipendenza dal Regno Unito nel 1956 è dilaniato da forze centripete che lo tirano in direzioni opposte. Anche perché nasce collocato lungo la direttrice coloniale britannica che attraversa l’Africa in verticale da nord a sud – al contrario di quella francese che va invece in orizzontale da ovest verso est – partendo dal sovrastante Egitto sino al Sudafrica. Tanto che per oltre quaranta anni è stato praticamente sempre in uno stato di guerra civile tra il nord arabo e mussulmano e il sud cristiano e animista – a cui si sono aggiunti nella parte occidentale i conflitti interetnici tra arabi e africani nel Darfur che degenerano dal 2003 in genocidio - fino al riconoscimento da parte di Khartum dell’indipendenza del Sudan del Sud nel 2011. Come non bastassero queste ragioni di instabilità strutturale, il Sudan è anche dentro fino al collo nel conflitto regionale che oppone l’Egitto all’Etiopia per la sua costruzione della « Diga del Rinascimento » sul Nilo azzurro, le cui convulsioni rischiano sempre di degenerare in una crisi armata regionale. E’ infatti proprio a Khartum, capitale del Sudan, che il più consistente – fino alla costruzione della nuova diga – ramo del Nilo detto « azzurro » si incontra con il Nilo detto « bianco » che nasce dal lago Vittoria e attraversa il Sudan venendo dall’Uganda per dirigersi verso l’Egitto e sfociare nel Mediterraneo. 

Ma le storiche fragilità del Sudan sono di lungo periodo, e rischiano da sole di non spiegare il perché di un golpe in questo momento. Proprio il giorno dopo gli incontri dell’inviato Usa in Sudan Jeffrey Feltman con la locale leadership, a cui aveva confermato il forte interesse e sostegno Usa alla transizione.

Tanto che l’ex analista Cia Cameron Hudson ha commentato « Ciad, Mali e Guinea hanno governi dove oramai i militari si nascondono sotto cosiddette transizioni civili. Se non va bene nemmeno il Sudan, dove abbiamo messo un enorme quantità di diplomazia – il Sudan ha firmato gli Accordi di Abramo con Israele nel gennaio 2021, primo paese africano, e la sede CIA a Khartum è la più grande del medioriente, ndr. – e di soldi, è difficile immaginare che gli altri riescano con meno».

Ed in effetti il golpe non sembra un errore di calcolo o un impulso non controllato, visto che un generale golpista ha subito dichiarato « cio che sta succedendo in Sudan non è un golpe militare bensi una correzione del corso della rivoluzione». 

Cio che sta succedendo in Sudan in effetti sembra piuttosto l’ultimo episodio della ventata di populismo africano che sta scuotendo il continente dal nord al Sahel, da ovest a est. Si tratta dell’ennesima manifestazione della profonda crisi dello Stato e della rappresentanza in questa grande macroregione oramai interdipendente. Un populismo che si veste apparentemente di sovranismo, e di fronte alla crescente crisi dello Stato assicura di poter assicurare l’agognata stabilità e sicurezza ai cittadini stremati da anni di conflitti mediante più autoritarismo. Già dopo il fallimento delle primavere arabe si era visto che la dialettica sarebbe stata non tra laici e islamisti bensi tra civili e militari. Ed oggi questa scorciatoia populista diventa l’uomo forte in Guinea e in Mali, l’esercito in Egitto e in Algeria, il figlio del presidente ucciso in Chad, perfino un presidente civile ma tentato dall’autoritarismo in Tunisia. 

E’ un sovranismo populista in salsa africana che, come tutti i sovranismi, non fa che incancrenire i problemi di sistema piuttosto che risolverli, perchè l’uomo solo al comando non è mai la soluzione per problemi complessi come la costruzione di una nazione. Ma visto che nasce dal fallimento della ricetta occidentale nella costruzione di uno stato simil democratico, oramai conclamata dai fatti in Afghanistan, esso guarda dall’altra parte. Verso culture politiche autoritarie, e le loro ricette. Come la crescente influenza turca e russa nel continente – e in Siria – sia in modo diretto sia mediante la compagnia di mercenari Wagner. Oppure verso le monarchie assolute del Golfo, e i loro denari senza democrazia. 

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