L'infanzia senza giochi ​nella Napoli lunapark

di Piero Sorrentino
Lunedì 13 Gennaio 2020, 00:00 - Ultimo agg. 06:30
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«Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita». È assai probabile che, adattato alla realtà di Napoli, l’incipit memorabile di “Aden Arabia” dello scrittore francese Paul Nizan, con il suo strepito contro la giovinezza, vada fortemente ridimensionato. Perché il problema, in questa città, non sta tanto nell’avere vent’anni, ma quattro o cinque appena. 

Napoli non è una città per bambini. E tutte le volte che ci illudiamo del contrario, o le volte in cui questo contrario ci viene imposto da una narrazione di cartapesta urlata a gran voce a fini di consenso elettorale o di propaganda politica, basta uscire di casa e girare un po’ per la città per imbattersi nell’impostura. Avere cinque anni a Napoli significa fare esperienza continua di questa ipocrisia pubblica, sociale e politica, culturale ed economica che brucia sulla pelle di cittadini che non votano, non producono e dunque non servono. Significa aggirarsi per le strade di un centro storico, per esempio, che a poco a poco sperimenta con sempre maggior forza l’assottigliarsi, o l’esaurirsi, della sua capacità di essere posseduto e vissuto da chi ci abita per essere affittato da chi ci passa. Dove i bambini sono sempre altrove, in un continente sconosciuto, lontani da spazi verdi o strutture ludiche. 

Chi ha figli piccoli e frequenta, per esempio, i cosiddetti giardinetti di piazza Cavour o le presunte giostrine di Santa Chiara sa di che cosa si parla.

Nel migliore dei casi, come quello di Santa Chiara, una fetta di terra brulla invasa da escrementi di cane, un’aiuola di erbetta spelata zeppa di rifiuti, un paio di scivoli o altalene arrugginite e ricoperte di storti e brutti graffiti che torreggiano – si fa per dire – sopra un tappeto di frammenti di bottiglie rotte e lattine taglienti. Nel peggiore, come nel caso di piazza Cavour, una terra di nessuno dove, nel tanfo di puzze di pipì macerate da settimane, pascolano spacciatori, prostitute e sbandati di vario genere. Uno spazio urbano dove chi spinge un passeggino è regolarmente esposto a qualsiasi tipo di difficoltà, emergenza o umiliazione, dagli slalom a cui è costretto per evitare buche e sampietrini sconnessi ai continui esercizi di geometria per poter svicolare tra auto parcheggiate dovunque e come capita, lungo marciapiedi sprovvisti di scivolo o bloccati da ostruzioni di qualsiasi tipo. Dove non esistono spazi pubblici o comunali – per tacere dell’accoglienza riservata spesso e volentieri da esercizi privati e commerciali – adatti e pensati per le donne che allattano. Dove mancano scuole materne e asili nido pubblici degni del loro nome e della delicatissima funzione che sono chiamati a svolgere. Continue variazioni intorno allo stesso asse. Evoluzioni nuove e sorprendenti che sprigionano sempre dalla stessa frattura. È una processione di lagnanze che va avanti da anni. 

Sono almeno un paio di lustri, per esempio, che “Save the Children” pubblica un lavoro bellissimo e benemerito, l’“Atlante dell’infanzia a rischio”. Basterebbe sfogliare quello per trovare tutto quello che serve. Basta leggere qualcuna di quelle pagine – a patto di liberarsi dello sguardo inerte e vuoto di chi non sa o non vuole vedere la realtà che ha sotto gli occhi – per veder delinearsi il perimetro di una città a due velocità, come sempre. La città A, quella dei bambini figli di persone benestanti e colte; e la città B, quella dei bambini deprivati economicamente e culturalmente. Dove i primi hanno ricche e variegate possibilità di accedere a strutture, servizi, offerte per fare sport o ricevere stimoli ludici e culturali, possibilità di frequentare esclusivi circoli con animatori, giochi, campi da tennis, piscine e piste da corsa. Mentre ai secondi tocca quello che capita loro sottomano, cioè nulla, nella gran parte dei casi, o – qualche volta – spazi non attrezzati e ritagli di fortuna. Eppure, nel 1989, la “Convenzione Onu per i diritti dell’infanzia” si era espressa al riguardo con una certa chiarezza, nel suo articolo 13: “Gli Stati parte riconoscono al fanciullo il diritto al riposo e al tempo libero, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età”. Così come in tantissimi studi e analisi la concretezza del diritto al gioco è usata come indicatore del livello di benessere di cui possono godere i minori.

E non è un caso che ben due elementi su quattordici del cosiddetto “Indice di deprivazione” utilizzato dall’Unicef misurano la concreta possibilità che hanno i bambini di giocare, in casa o all’aria aperta. 

Crescere in quartieri degradati o vivere gli anni dell’infanzia senza luoghi pubblici accoglienti, valorizzati, inclusivi, che offrono occasioni non solo di gioco e svago ma pure di socializzazione – è il ragionamento alla base di questi studi – produce ricadute gravissime non solo sul tempo libero e sullo svago, ma proprio in termini di opportunità educative. E quanto soffre Napoli, ogni giorno, di questo? Quanto pesano, su tutta la città, queste carenze? Come in quei versi della “Canzone degli F.P e degli I.M.” di Elsa Morante, a Napoli corre una linea di frattura fortissima tra i “Felici Pochi” e gli “Infelici Molti”. E proprio come in quella canzone, dovremmo ascoltare decisamente con più attenzione la voce degli “Infelici Molti”: “Questa terra non è mica roba vostra./ È da secoli e da millenni che noi cerchiamo di farvelo capire./ Mamma nostra non ci ha mica fatto per servire agli usi vostri./ Mica ci ha fatto gli occhi per guardare le tristi facce vostre./ Mica ci ha fatto gli orecchi per ascoltare le tristi chiacchiere vostre”.
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