Tra piccoli veti e clientele ​il fallimento della politica

di Adolfo Scotto di Luzio
Domenica 16 Gennaio 2022, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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A Napoli ci sono dieci municipalità, dieci presidenti di municipalità, dieci consigli, ognuno dei quali è composto da trenta consiglieri, dieci giunte e, per ognuna, presidente, vice presidente e quattro assessori, di cui tre esterni e uno interno al consiglio. Un piccolo esercito di rappresentanti politici, grosso modo trecento persone, che nelle intenzioni dovrebbero occuparsi di funzioni importanti per la vita dei quartieri della città: manutenzione urbana, attività sociali di assistenza, educazione, cultura e sport, servizi amministrativi di prossimità.

Per non parlare del ruolo di raccordo con il Comune. Insomma, una dimensione rappresentativa complessa, se si tiene conto del fatto che ognuna di queste assemblee raccoglie i voti di circa centomila cittadini distribuiti territorialmente secondo rapporti che, fatta eccezione dei quartieri a più alta densità abitativa, prevedono in media tra i seimila e i settemila abitanti per chilometro quadrato. Sulla carta, una dimensione pervasiva, capillare, che penetra dentro le articolazioni medie e piccole della comunità urbana. 

Sulla carta, perché in realtà questa imponente macchina “democratica” è totalmente paralizzata. A cento giorni dalle elezioni comunali e dall’insediamento della giunta Manfredi, nessuna delle municipalità napoletane ha formato il suo piccolo governo locale. Espressione della maggioranza che ha eletto l’attuale sindaco di Napoli, i consigli sono tutti, immancabilmente, in attesa, come sospesi, paralizzati. Stanno lì ad aspettare che le forze politiche trovino un accordo, sistemando i loro reciproci interessi, potendosi così accomodare dentro lo schema di una spartizione che soddisfi i più, aprendo finalmente la strada alle nomine più periferiche del sistema rappresentativo urbano.

Le municipalità ripetono su scala ridotta il modello della politica nazionale. Sono dei parlamentini in sedicesimo, ognuno con il proprio gruppo politico, fatto solo in parte di forze riconoscibili, mentre proliferano le liste cosiddette civiche, peraltro di difficile identificazione di primo acchito. In alcuni casi, c’è persino il gruppo misto. Già qui appare evidente che questo modello, per come è concepito, è più al servizio delle esigenze di composizione degli interessi politici maggiori che delle necessità rappresentative dei cittadini. Avere a disposizione centinaia di “posizioni” da gestire, nonché decine di incarichi di governo a scala ridotta su questioni peraltro rilevanti per la vità quotidiana rappresenta per i partiti e le forze politiche che si muovono su uno scenario più ampio e per i loro capi una risorsa non da poco nella gestione clientelare dei propri interessi. Gli insoddisfatti, quanti sono stati delusi a livello spartitorio primario, per così dire, possono trovare a questo rango inferiore della vita politica cittadina compensi e forme di riparazione.

Fatalmente, una simile funzione risarcitoria finisce per scaricare qui tutte le tensioni sul cui instabile equilibrio si regge al piano superiore la politica cittadina.

Le promesse fatte in campagna elettorale e non mantenute, gli scambi inevitabili al momento degli accordi tra i partiti e le diverse fazioni, trovano al piano inferiore il celebre piatto di lenticchie da spartire.

Ma questa politica al servizio di sé stessa e della propria riproduzione è solo un aspetto del problema. Impropriamente ho parlato prima di quartieri napoletani. Di fatto, le municipalità sono ripartizioni amministrative che con il tessuto sociale, storico e culturale della città hanno poco a che fare. Rappresentano uno schema di ripartizione territoriale, concepito secondo criteri astratti di omogeneità, peraltro molto recenti, calato sulla vita urbana con l’effetto di recidere, in alcuni casi brutalmente, la trama dei rapporti storico-culturali. Si prenda il caso più clamoroso (e noto), quello della quarta e della seconda municipalità. San Lorenzo sta insieme alla Vicaria, a Poggioreale e alla zona industriale, con i Decumani, Porta San Gennaro e Porta Capuana. Port’Alba, che collega piazza Dante, sede della seconda municipalità, da un lato a San Gregorio Armeno e, dunque, a San Lorenzo Maggiore, dall’altro, a via Costantinopoli, al Museo archeologico nazionale e a Piazza Cavour, è anche il varco tra ripartizioni amministrative differenti che spezzano il continuum della storia, impedendo di fatto una visione unitaria del cuore urbanistico di Napoli. A voler considerare soltanto questo aspetto, appare evidente come la frammentazione imposta da queste circoscrizioni territoriali di livello inferiore intralci qualsiasi ipotesi di approccio coerente alle questioni della cultura, che tanta parte sono della capacità attrattiva della città. Al suo posto una selva di prerogative, ingerenze, veti, piccoli poteri di interdizione. Un esempio clamoroso di come la politica, concepita in funzione della conservazione di sé stessa, plasmi in modi spesso inavvertiti la forma stessa della città, secondo criteri che sono del tutto avulsi dalla sua complessa vita storica e indifferenti a qualsiasi ipotesi di rappresentazione coerente delle sue esigenze.

Si può verosimilmente immaginare che un’amministrazione che tiene bloccata l’attività delle proprie articolazioni periferiche in attesa che tutte le tessere del puzzle clientelare vadano al proprio posto realizzi la riforma della struttura del decentramento urbano? Concepisca, ad esempio, il disegno razionale di una struttura amministrativa ad hoc per il centro antico di Napoli? Sarebbe bello per una volta essere smentiti.

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