La crisi della cultura nella città vittima degli stereotipi

di Adolfo Scotto di Luzio
Domenica 2 Aprile 2023, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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La cultura a Napoli è una questione molto delicata. Lo è non solo per la sua storia e per la sua tradizione, ma direi, soprattutto, per la perdita di tutto questo. Per la perdita appunto della storia e della tradizione. Da molto tempo la città vive un profondo smarrimento come è noto, reso più acuto dalla scomparsa di rilevanti riferimenti politici nazionali, ma con radici ben piantate nella sua vicenda repubblicana.

Monarchica al tempo del referendum istituzionale, guidata da una giunta monarchico neofascista praticamente per tutti gli anni Cinquanta, prima con Achille Lauro e poi, per un brevissimo momento, con Nicola Sansanelli, che era stato segretario ad interim del Partito nazionale fascista nell’anno successivo alla Marcia su Roma, e di nuovo da Lauro nel 1961, Napoli ha imboccato con molto ritardo rispetto ad altre città del Mezzogiorno d’Italia la strada della normalizzazione politica filogovernativa e nel 1975, praticamente unica grande città del Sud, ha conosciuto l’esperienza delle giunte rosse, chiusasi nell’aprile del 1983, per poi tornare nell’ultimo decennio repubblicano ad un governo urbano saldamente rinchiuso dentro il perimetro degli equilibri politici nazionali.

Un perimetro peraltro sempre più asfittico, dove non poteva non riflettersi, amplificata dal localismo, la crisi politica dei partiti repubblicani. Per molto tempo perciò il rapporto tra politica e cultura in città è stato un rapporto di reciproca esclusione. Nel ceto politico locale, gli intellettuali napoletani videro all’epoca, essenzialmente, il prolungamento dei costumi mentali e degli atteggiamenti della vecchia capitale parassitaria. Una permanenza per altri versi in contrasto con il volto nuovo che Napoli pure aveva assunto per effetto sia delle politiche primo novecentesche di trasformazione industriale, che per le funzioni metropolitane che comunque, unica grande città del Sud, assicurava rispetto alla vasta provincia meridionale. Si pensi soltanto alla forza di attrazione a lungo esercitata dalla sua Università, la “Federico II”. 

E così, se nella miseria dei ceti popolari urbani stava ancora l’occasione, anzi la base strutturale, per la riproduzione di rapporti politici clientelari, nella centralità che Napoli manteneva rispetto al resto del Mezzogiorno continentale si potevano rintracciare le premesse di un suo ulteriore sviluppo in senso moderno. Su questa polarità si sono costruite nel corso del tempo numerose ipotesi di politica della cultura, tanto sul versante laico-liberale che su quello di un robusto filone gramsciano-meridionalista. Sono nati così riviste, gruppi intellettuali, persino proposte politiche. Il fatto è che Napoli nel frattempo stava perdendo quella centralità rispetto al Mezzogiorno d’Italia che aveva potuto esercitare ancora fin verso gli anni Settanta. In parte, per effetto della trasformazione stessa del Sud, si pensi solo alla crescita della Puglia e al ruolo sempre più importante assunto da Bari (la Sicilia ha sempre fatto storia a sé), in parte, però, anche per la oggettiva difficoltà di opporsi alla frantumazione regionalistica del quadro nazionale e del Mezzogiorno in modo particolare. 

Negli anni Ottanta e Novanta, la città si è trovata sempre più a dipendere da una politica che all’ordinamento regionale ha assegnato al tempo stesso funzioni miracolistiche e il non trascurabile e fatale compito di moltiplicare le occasioni di gestione clientelare del potere.

Dentro questa morsa, fatta di perifericità geografica (rispetto alle nuove direttrici dello sviluppo meridionale) e di crescente marginalizzazione intellettuale (il nuovo meridionalismo delle scienze sociali degli anni Novanta ha potentemente contribuito al ridimensionamento della centralità napoletana, che al contrario è sempre stata nazionale e unitaria), la cultura ha smesso di essere un discorso, uno strumento razionale di indagine sulla realtà, per diventare un mero segno di appartenenza, il luogo di riproduzione di un ceto intellettuale che non aveva altre funzioni che preservare sé stesso. Sempre meno, musica, letteratura, spettacolo, in questi anni sono stati uno strumento per capire Napoli e sempre più sono diventati il palco in cui l’intellettuale napoletano è tornato, in mancanza ormai di altro, a mettere in scena la sua napoletanità.

Alla fine la cultura napoletana non è altro che la commercializzazione dello stereotipo della città. Fa una certa impressione, a questo proposito, sfogliare le pagine di un libro uscito qualche mese fa, in pieno covid, per i tipi di Guida e che racconta “Un secolo di storia” della famiglia di librai ed editori napoletani. E in particolare, la straordinaria galleria fotografica di cinquant’anni e più di iniziative organizzate presso la “saletta rossa”, quella vera, voluta da Mario all’inizio degli anni Sessanta. Fa impressione, non solo per la statura degli intellettuali che gravitano intorno alla libreria di Port’Alba e alla casa editrice, da Cesare Brandi a Giuseppe Ungaretti, da Pierre Klossowski a Kerouac e Allen Ginsberg, passando per due giovanissimi Edoardo Sanguineti e Umberto Eco, ma perché una dopo l’altra quelle fotografie documentano con il diradarsi di quel mondo la progressiva centralità che proprio la politica acquista man mano che ci si avvicina alla fine del Novecento. Una sostituzione che è legata al venir meno della prospettiva metropolitana di Napoli e alla sua sempre più consistente integrazione subalterna nel quadro del potere di volta in volta dominante a Roma. Ministri e presidenti del consiglio, De Mita, D’Alema, Riccardi sono al centro della scena degli ultimi anni, ribaltando completamente il sistema dei rapporti tra “mondo della cultura” e “mondo della politica”. Gli intellettuali, padroni assoluti del palco dei “primi cinquantanni”, ricompaiono nella seconda parte del volume come mere comparse a lato delle star del nuovo potere romano sorridenti e sicure di sé. Televisione e ministeri la fanno ora da padroni. In questo avvicendarsi sul palcoscenico della saletta rossa di Mario Guida c’è come l’illustrazione della progressiva dipendenza della città. Alla fine cosa resta? Lo spettacolo e poco altro. Soprattutto, la rinuncia a comprendere il nostro tempo con il solo obiettivo di vendere l’ultima risorsa di cui Napoli sembra disporre, il suo luogo comune. 

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