Napoli, né alibi e né nostalgie

di Marilicia Salvia
Lunedì 25 Gennaio 2021, 23:51
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La cosa peggiore è questo eterno rigurgito della nostalgia. Il rimpianto che torna a galla, i nodi mai sciolti che una volta di più reclamano soluzione. Quella coazione a ripetere che ci spinge di nuovo a dividerci: di qua i sarristi, di là gli ancelottisti. Da una parte le vedovelle, capaci di risalire fino all’era Mazzarri pur di ribadire che si stava meglio quando si stava peggio, dall’altra quelli che la colpa è solo, sempre e comunque della società. Cioè di De Laurentiis, che «non caccia i soldi» e invece caccia gli allenatori. Non quello di oggi, s’intende, che a quanto pare per adesso l’ha sfangata, anche se mai è stato così ferocemente sulla graticola. Gli altri allenatori, i comandanti e gli assi di coppe e quelli ancora prima. Via, punto e a capo, per ripicca o per stanchezza. Ma sempre senza un progetto, senza un piano, senza un’idea di futuro. 

Come sempre capita, un po’ di ragione e un po’ di torto sono equamente distribuiti in tutte le posizioni. Nel calcio poi, dove basta un rigore messo dentro o viceversa clamorosamente sbagliato a cambiare tutto. Ma lo sappiamo questo, mica ci meraviglia. Tant’è vero che di giustificazioni e di alibi e di seconde occasioni gliene abbiamo accordate parecchie, a questa squadra che continua a farci stare male. Lo abbiamo perdonato Lorenzo, gli abbiamo fatto sentire il nostro affetto, gli abbiamo fatto quadrato intorno. Abbiamo dato il tempo a Zielinski di trovare continuità riempiendolo di complimenti che neanche a Maradona, dopo quelle due o tre partite - non di più - giocate da re. Abbiamo sostenuto Petagna senza se e senza ma, facendocelo diventare simpatico nell’illusione che un secondo miracolo fosse possibile, dopo quello del goleador folletto Mertens nato dal doppio infortunio del centravanti fantasma Milik. Ma Petagna non è Mertens, e ora noi speriamo tanto che Osimhen non sia Milik. Resta il fatto che, come più volte ribadito anche su queste colonne, il bicchiere ce lo siamo sempre bevuto come se fosse mezzo pieno. Però poi c’è un limite. Un punto di non ritorno. Quel punto oltre il quale, se ci si affaccia, si vede solo un oceano di nausea.

Non la rabbia, che quella passa, e poi c’è sempre da guardare avanti, la zona Champions l’Europa League la Coppa Italia sono sempre lì, in palio, non ancora perdute. Ma è la nausea quella in agguato, e non riusciamo ad accettare di arrivare a tanto. Non è possibile, non ci possiamo credere, non è quella vista a Verona la squadra che sapevamo di avere. Una squadra confusa, smarrita, pasticciona. Impaurita. Non solo contro la Juventus in Supercoppa, che ci poteva anche stare (non doveva, ma ahinoi contro quelli ci capita). Ma contro il Verona. Il Verona. Dopo lo Spezia, dopo il Torino. Ma anche, per contro, dopo la Fiorentina e quei sei gol che ci avevano fatto sentire i padroni del campionato.


Ecco, è lo sconcerto, è la mancanza di senso ciò che resta della partita di domenica e fa male, fa male davvero.

Fa male perché è incomprensibile questa altalena infinita, è un buco nero dentro il quale davvero può finire tutto e il contrario di tutto. Fa male perché apre un interrogativo gigantesco, mette in discussione anche le certezze basilari che coltiviamo e che ci tengono insieme da anni, dall’epoca di Mazzarri almeno: e cioè che facciamo il tifo per una squadra competitiva ai massimi livelli, anche se spesso (anzi purtroppo quasi mai) vincente. La sconfitta incredibile di Verona - non brutta, che la bruttezza ci accompagna spesso, e ormai anche a questo ci siamo adattati a furia di sentirci dire che con la Grande Bellezza non ci siamo portati a casa niente - quella sconfitta incredibile a tre giorni da un’altra sconfitta onestamente sconcertante e a sette da una vittoria invece irresistibile ha avuto l’effetto di tramortirci. Siamo confusi, come è inevitabile quando si gira troppo a lungo su una giostra impazzita. Ma soprattutto, e purtroppo, siamo disillusi. No, non ci crediamo più che il Napoli, questo Napoli dalla rosa lunga e dai tanti calciatori «di qualità» come piace dire a Gattuso, sia davvero in grado di competere con le corazzate della serie A. Che possa arrembare quel Palazzo alla faccia dei fatturati e dei mostri sacri del calcio mondiale messi in campo - dagli altri - con cifre a molti zeri. È finita la favola bella di Davide che batte Golia, dello spirito di gruppo più forte delle forti individualità. Ed è finita adesso, e non con l’amara chiusura dell’avventura sarrista, perché per un anno intero dopo la partenza di Ancelotti - e soprattutto con la conquista della Coppa Italia - ci eravamo tutti convinti che quella favola fosse ancora viva e vitale. Anzi che non fosse una favola ma oggettiva realtà.


Ci siamo illusi, ci siamo voluti illudere, ma adesso basta. Da adesso in poi facciamo parlare i numeri, i risultati. Non ucciderete mai l’amore per la nostra maglia, il tifo sincero, assoluto, appassionato. Il tifo che ha accompagnato il Napoli fino alla serie C, all’inferno e ritorno, il tifo che per i napoletani è ragione di vita. Ma no, non ci illuderete più. Il bicchiere, ormai, è mezzo vuoto. Che sia Gattuso o un altro allenatore, che sia la società con un piano rivoluzionario o con un nuovo clamoroso acquisto - quel famoso leader alla Ibrahimovic con cui altre squadre hanno svoltato - o che siano i calciatori che abbiamo qui e adesso, a sorprenderci. Che siano loro a riempirlo, il bicchiere. Noi, ci troveranno dove sempre stiamo, sugli spalti (speriamo presto) o davanti alla tv, negli uffici o nei bar a parlarne il lunedì mattina, sulle chat a discutere all’infinito e sui siti tanto detestati da mister Ringhio. Sempre pronti a lamentarci, sempre pronti a brindare.

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