Il dilemma del Pd che vuol dire sinistra in Europa

di Massimo Adinolfi
Sabato 31 Marzo 2018, 22:56
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Socialisti perché europeisti, o europeisti perché socialisti? Non è un gioco di parole, e neppure un mero dubbio sulla collocazione del partito democratico in Europa, ma una domanda sull’infrastruttura culturale – starei per dire ideologica – del Pd. Una domanda non rinviabile, dal momento che manca solo un anno alle prossime elezioni europee. Una domanda, e forse anche una ciambella di salvataggio, per un partito che, dopo la rotta del 4 marzo, ha bisogno di dotarsi di un forte progetto politico. Che cosa dunque significa porre una simile questione? 

In primo luogo una cosa: che i due fulcri ideali del Pd – il socialismo democratico, da un lato, l’europeismo dall’altro – non vanno considerati polarmente opposti. In realtà, la tentazione di fare altrimenti serpeggia. A sinistra, vi è in effetti chi pensa che l’Unione europea sia stata e sia ancora solo il nome che la globalizzazione neoliberista ha assunto in Europa. Vi è chi pensa che quello che sono stati negli anni Ottanta Reagan e la Thatcher nel mondo, è quello che è arrivato in Europa negli anni Novanta con Maastricht e l’egemonia tedesca (anche grazie all’arrendevolezza della Terza via di Clinton e Blair – e, in Italia, dell’Ulivo). E, dunque, i due fuochi dell’ellisse democratica debbono allontanarsi e infine separarsi: si può essere socialisti solo nella dimensione nazionale; si può essere socialisti solo fuori dall’Unione europea. Compagni, ci siamo sbagliati: l’Unione è un vicolo cieco e bisogna tornare indietro.
Se così fosse, dirsi socialisti europei sarebbe ormai una contraddizione in termini. Aver praticato questa contraddizione sarebbe il motivo della sconfitta del socialismo democratico. Il risultato del 4 marzo non si legge da solo, ma come ultimo anello di una catena che, nel tempo, si è stretta sempre di più attorno al collo della sinistra.
Questa sinistra (sinistra intellettuale, ancor prima che sinistra politica: ma credere che sia possibile fare politica in termini puramente pragmatici, senza un filo di pensiero, è un errore esiziale) sarebbe insomma disponibile a compiere una mossa opposta, ma speculare a quella che sovranisti e nazionalisti in giro per il continente propongono: disfare l’Unione. «Factum infectum fieri nequit», dice l’adagio: non si può fare come se i fatti non fossero avvenuti. E però in politica si può provare a fare pure questo, anche se in realtà una deflagrazione dell’Unione, o il definitivo, drastico ridimensionamento delle sue ambizioni, non riporterebbe affatto i Paesi europei là dov’erano, dopo la caduta del Muro di Berlino, e la fine del mondo bipolare, ma chissà dove.
Chi però a sinistra non volesse rischiare questa deriva, ha il dovere di chiarire in qual modo intende legare i due termini. Non si tratta di un’esigenza soltanto concettuale o morale, ma di una necessità di ordine strategico. Perché lo scenario europeo è destinato a mutare e perché i confini delle famiglie politiche continentali sono anch’essi in via di ridefinizione. 
Così torna la domanda. Detto che non si tratta di sciogliere ogni legame, Il modo in cui si annodano socialismo riformista ed europeismo può essere duplice. In un caso, si è anzitutto europeisti, dopodiché si valuta quanto socialismo, in termini di politiche pubbliche, può essere ospitato sotto il tetto dell’Unione. Nell’altro caso si è anzitutto socialisti, e solo dopo si definiscono i lineamenti dell’Europa possibile. Si tratta di due modi diversi di definire la propria identità politica e culturale. Ancora in forma di domanda: la sinistra prova a legittimare democraticamente l’Europa per produrre politiche efficaci, oppure l’efficacia delle politiche europee è la via attraverso la quale ricostruire la fiducia negli strumenti comunitari e la sua piena legittimità democratica?
Definire con chiarezza il profilo dell’alternativa aiuta, io credo, a non pretendere di dirimere la questione infilandosi in discussione su ciò che è vivo e ciò che è morto dell’eredità del Novecento. Perché in ogni caso è viva la domanda. Viva come problema politico, posto concretamente dall’iniziativa presa dal Presidente Macron, che cerca alleati nella sua battaglia per cambiare l’Europa. Si muove, Macron, fuori dallo schema tradizionale: socialisti di qua, popolari di là. Denunciandone l’insufficienza. Perché da un lato i popolari rischiano di essere incalzati dai movimenti nazionalisti e risucchiati su posizioni apertamente conservatrici; dall’altro i socialisti sono tentati dal rilanciare la loro azione su piattaforme demagogiche e radicaleggianti. 
Se questo è lo stato delle cose, allora al Pd ora tocca battere un colpo. Gli tocca stabilire cosa significa il suo europeismo, e poi farne una bandiera non retorica. Gli tocca capire se vi è ancora, e qual è, una causa comune in Europa. Gli tocca chiarire se la maniera in cui va coniugato con il suo riformismo è congruente con la modificazione sostanziale del quadro politico europeo alla quale pensa Macron, oppure no. Gli tocca decidere, infine, se Parigi val bene una messa. 
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