Gillette, se ora il meglio di un uomo
non è più togliere la barba

di ​Piero Sorrentino
Domenica 18 Agosto 2019, 00:00
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La notizia è arrivata, è proprio il caso di dirlo, come una rasoiata: Procter & Gamble, la multinazionale americana che inonda i mercati con beni e marchi commercializzati in tutto il mondo, ha annunciato ai suoi azionisti una perdita di 5,24 miliardi di dollari. Niente di irreparabile per un colosso del genere, per carità, ma neppure bruscolini. Il motivo? «Moltissimi uomini», ha spiegato Jon Moeller, capo dell’ufficio finanziario di P&G a margine di una conferenza con gli investitori, «hanno piantato in asso il rasoio». E siccome P&G è proprietaria, dal 2005, del marchio Gillette, ecco che più che una lametta, è una vera e propria ghigliottina quella che cala sul bilancio della multinazionale statunitense al seguito delle legioni di hipster barbuti che ormai colonizzano il Pianeta. 

Maschi di qualsiasi censo, età, nazionalità, formazione culturale e politica, un esercito di orgogliosi ostentatori del pelo felice di aver finalmente gettato alle ortiche schiume e lame, forbici e lozioni anti irritazione, pennelli e allume di rocca (ma poi, chi sa cosa diavolo è l’allume di rocca, senza fare ricorso a Google?). Tutto tempo guadagnato per un supplemento di sonno mattutino. Capitale sociale per difendersi una buona volta dalle critiche femminili: «Ti invecchia. Sembri sporco in viso. Trattiene l’odore del puzzo di fritto. Mi graffi la pelle quando mi baci. La barba di tre giorni solo se ti chiami Ernesto Che Guevara», eccetera. Eppure, era il 2014 quando il «Guardian» ammoniva che la bolla era scoppiata, che non era più tempo di mancate rasature. Adrian Wooldridge, autorevole editorialista dell’«Economist», qualche mese fa giurava, sul suo account Twitter, che «ormai a San Francisco sono tutti sbarbati».

Sarà. Sta di fatto, però, che qui da noi – notoriamente lenti a recepire le mode che arrivano da oltreoceano – è ancora tutto un paesaggio di irsuti prati sulle guance. Ce l’ha l’intellettuale di sinistra e il giornalista di destra, il calciatore e il camorrista che trae ispirazione da Gomorra (noi, qui a Napoli dove non ci facciamo mai mancare veramente niente, abbiamo avuto pure un gruppo di criminali chiamato «Barbudos», come i rivoluzionari cubani degli anni ’50, anche se i delinquenti nostrani di questo dato storico non avevano cognizione, o meglio, se ne facevano un baffo), gli ex sessantottini ora diventati feroci dirigenti d’azienda e i dirigenti d’azienda con l’orecchio perennemente incollato all’I-phone che strizzano l’occhio alle intemperanze creative del Sessantotto e portano la barba per dimostrare che in fondo sono come i loro operai, barbuti pure loro e con I-phone (pagato a rate) pure loro.

Finito il tempo dei fastidi – secondo Schopenhauer, che la riteneva ingiustificabile segno di animalità, «la barba, essendo quasi una maschera, dovrebbe essere proibita dalla polizia (…) e la sua lunghezza è sempre proceduta di pari passo con la barbarie, cui già accenna il nome stesso» – che sia incolta, bianca, da filosofo greco o da terrorista islamico, una cosa è certa: è profondamente cambiato, al tempo del #MeToo, il senso dello storico slogan: «Gillette, il meglio di un uomo». In fondo, nessuno di noi, credo, ha mai ben capito cosa volesse significare, ma per decenni ce lo siamo fatti bastare. Poi, all’inizio di quest’anno, la Gillette ha diffuso uno spot che sembrava avere tutti i crismi di una vera e propria pubblicità progresso: una infilata di irritanti e deplorevoli esempi di mascolinità tossica (atti di bullismo, capi in riunione aziendale che zittiscono le loro collaboratrici donne, ragazze importunate dal solito gallo per la strada) e un finale, invero un tantino troppo didascalico, in cui venivano mostrati i giusti comportamenti da tenere in quei casi (non aizzare le risse, ascoltare le colleghe sul luogo di lavoro dando loro spazio e tempo per esprimersi, difendere una donna importunata). Tutti esempi di maschi perfettamente sbarbati, ça va sans dire, e luminoso modello di virtù pubblica. Forse è lì che è cominciato, prima ancora del tonfo in borsa, il vero declino – sociale e culturale, prima ancora che economico e commerciale - delle lamette: quando una manciata di astuti copywriter ha pensato che era giusto agganciare l’etica a un oggetto o a un gesto quotidiano come quello della rasatura. Quando, in altre parole, il sacrosanto attivismo in difesa delle donne è diventato elemento di comunicazione commerciale, senza passare per una vera e propria, difficile e complicata, rilettura del ruolo del maschio contemporaneo. Non è la barba a fare la differenza, e la salvezza non verrà dal descrivere tutti i maschi, indifferentemente, come potenziali sopraffattori. Ma ora è tempo, caro lettore maschio, di terminare la lettura della tua hegeliana «preghiera mattutina» dei quotidiani e di passarti una mano: prima sulla guancia e poi sulla coscienza.
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