A Scampia nascono fiori ma la politica li ignora

di Piero Sorrentino
Domenica 1 Agosto 2021, 23:04 - Ultimo agg. 2 Agosto, 06:00
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Basta questo a lavare le coscienze di chi, per decenni – politici, classe dirigente, società civile, amministratori, funzionari pubblici, le cricche locali che hanno fatto e continuano a fare ciò che vogliono – ha consentito che Scampia e le mille periferie di questa città diventassero quello che sono? Basta un atto di dolore, una commovente metafora, una immagine coinvolgente per poter dire come i latini, ancora una volta, “de hoc satis”, basta così, la discussione si è esaurita, possiamo andare oltre? Forse è a partire da questo atroce paradosso che va ripensata la crisi delle periferie, da una presa collettiva di coscienza del potenziale esplosivo che si annida dentro queste, seppur sacrosante e doverose, affermazioni.

Sono molte, troppe le persone che si sono convinte dell’immodificabilità di certe condizioni in cui versano le periferie, perché le vedono saldarsi ai mille segnali di uno sfilacciamento e di una crisi più generali, al cui centro c’è sempre lo stesso dato: la frattura tra le parole e i fatti. Da questo punto di vista, il registro delle incompiute che ospita l’elenco di tutto ciò che intorno a Scampia è stato detto e tutto ciò che è stato fatto ha l’aspetto di un librone polveroso dal numero incalcolabile di pagine. Dentro c’è di tutto, dall’Auditorium alla Cittadella dello Sport, dalle Vele alle strutture per lo svago e il tempo libero, fino al vero e proprio scandalo rappresentato dall’abbandono pubblico e istituzionale nel quale versano le infinite associazioni e comitati che lavorano sul territorio, dal Centro Hurtado a Vodisca, da “Chi rom e chi no”, dal “Gridas” al “Mammut”.

A ogni pacca sulla spalla data in pubblico corrisponde una dimenticanza in privato, per ogni incoraggiamento nel corso di cerimonie ufficiali c’è, nel chiuso degli uffici, una indifferenza, se non una vera e propria strafottenza per le loro sorti. È la sensazione di questa patente contraddizione, oggi, ciò che di più pericoloso si allarga nelle periferie mortificate e incarognite e nelle persone disilluse che vi abitano. È facile attribuire quanto appena detto alla universale crisi della politica con la quale spiegare tutto.

In realtà c’è qualcosa di più. Se oggi le periferie si sentono così, se sentono sopra di loro il peso di questa coerenza latitante, non è per una qualche sorta di perenne autovittimizzazione, ma perché avvertono che c’è stata una progressiva secessione da loro delle classi dirigenti che sono andate a poco a poco a rintanarsi nel guscio protettivo delle parole.

Vi è stata, in altri termini, in quelle élite politiche e dirigenziali una progressiva e sempre crescente consapevolezza che in fondo bastava dirsi contriti, e apparire contriti, per esserlo pienamente, senza che questo fosse o dovesse giocoforza essere conseguenza di qualcos’altro: progetti realizzati, fatti concreti, elementi misurabili, oppure, in assenza di questi, dimissioni, o licenziamenti, o cambi di dirigenza. Ma un’autentica comunità politica e sociale si riconosce sempre e solo da questi ultimi, dalla sempre sconfessata realtà dei fatti e delle cose. Dire le parole che decidono del presente di una cittadinanza è certo un punto importantissimo. Ma compiere i gesti che ne indirizzano il futuro, è lì che sta la vera posta in gioco. 

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