Se a Napoli la normalità vuol dire disordine

di Fabrizio Coscia
Lunedì 14 Giugno 2021, 23:30 - Ultimo agg. 15 Giugno, 06:00
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La cronaca dell’ultimo weekend e i video che girano sui social ci spingono, purtroppo, a occuparci di nuovo della movida napoletana: i ragazzini che si sono picchiati furiosamente al Vomero e i giovani che si sono rincorsi nel traffico di Bacoli prendendosi a colpi di casco in testa, sono l’immagine del ritorno alla «normalità» con il coprifuoco spostato a mezzanotte. 

La prima domanda che dovremmo porci, in effetti, è: che cosa significa «normalità»? L’etimo della parola ci può essere utile per il ragionamento che qui proviamo a fare: viene dal latino «norma», che era uno strumento, una squadra per misurare gli angoli retti. Da qui il significato astratto di «regola» che il termine ha poi acquisito. Ma «norma» è la contrazione di un’altra voce di derivazione greca - «gnorizein» - che ha la stessa radice del latino «gnoscere», che significa «conoscere» e «far conoscere». 

Ecco, allora, se la normalità è una condizione in cui esiste una norma misurabile da conoscere e far conoscere (e dunque da far rispettare), possiamo dire che c’è mai stata una «normalità» a Napoli? E chi è responsabile di questa mancanza di normalità, di questa mancanza di conoscenza delle norme che i nostri giovani vivono e trasformano in violenza e anarchia?

Il lungo lockdown non ha certo giovato, la pressione psicologica che gli adolescenti hanno subito è indubbia (ancora adesso la faccenda dei vaccini per i più giovani mi pare che sia gestita in maniera piuttosto confusa).

E tuttavia nulla può giustificare l’escalation di violenza della movida che ha evidentemente cause ben più profonde e radicate nel tessuto sociale di questa città. Intanto, mi viene in mente quel romanzo dello scrittore inglese William Golding, premio Nobel per la letteratura nel 1983, «Il signore delle mosche»: racconta del naufragio su un’isola deserta di un gruppo di preadolescenti di buona famiglia che tentato di autogovernarsi, senza il controllo e la guida da parte di un’autorità adulta, ma finiscono gradualmente per regredire a uno stadio primitivo, che sfocia in una violenza selvaggia e belluina. I ragazzini del romanzo sono, in effetti, come quelli della movida che si picchiano ferocemente per strada.

Danno libero sfogo ai loro istinti, alle loro paure, alle loro frustrazioni, recidendo qualsiasi legame con la civiltà. 

Ma qual è la causa di questa sospensione della «norma»? Nel romanzo di Golding è, evidentemente, l’assenza fisica degli adulti. Nel nostro caso è la loro assenza simbolica. Ma questa assenza - in termini di distanza, di distrazione, di abbandono - è una responsabilità collettiva, e dunque politica. La periferia napoletana è, per certi versi, la restituzione topografica di questa responsabilità, così come alcuni quartieri del centro storico, che con la chiusura di quei pochissimi poli culturali esistenti e la crisi economica devastante dovute alla pandemia, sono diventati un incubatore di frustrazione. Ma che i giovani violenti della movida vengano da queste realtà deprivate o siano figli della cosiddetta «Napoli bene» non fa nessuna differenza ormai, poiché il senso di disagio e l’assenza di punti di riferimento sono divenuti trasversali. 

La verità è che Napoli, tra occasioni mancate, disoccupazione, dispersione scolastica e mancanza di prospettive, non è una città per giovani: lo spazio aperto della movida diviene così, paradossalmente, uno spazio libero dalle norme, e il luogo in cui esplodono le contraddizioni. Nell’alcol gli adolescenti cercano di riempire un vuoto che è, prima di tutto, un vuoto culturale. Gettati come tritacarne in una società dove l’unica legge è la competizione, e dove per uno che «ce la fa» altri mille arrancano e si sentono esclusi, essi vivono questa competizione come rabbia, rancore, e come occasione di sfogo per prendersela con tutto e con tutti. Sta a noi adulti offrire alternative a questo vuoto, a questo deserto di valori che li circonda, sta a noi costruire queste alternative, organizzarle, gestirle, diffonderle. C’è molto lavoro da fare, e non basta prendersela con le istituzioni, che pure hanno colpe enormi: tutti dobbiamo sentirci responsabili e coinvolti. Tutti dobbiamo attivarci, dare tempo, aiuto, disponibilità, idee, ascolto, a questi giovani. È in gioco il futuro della nostra città. E il futuro è già qui.

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