Perchè la politica non ferma il ricatto dei microsindacati

Mercoledì 21 Marzo 2018, 23:00
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eri ennesima giornata di clamorosa violazione di massa del diritto alla mobilità di centinaia di migliaia di cittadini napoletani, campani e turisti. Lo sciopero proclamato da una sola sigla sindacale, la Confail , è riuscito a mettere in ginocchio e paralizzare i convogli della la Circumvesuviana, della Cumana e della Circumflegrea. Raffiche di corse annullate, pendolari disperati, financo stazioni chiuse. Lo sciopero di un solo sindacato, che non ha neanche firmato il piano industriale di Eav ma lo critica frontalmente, è dunque riuscito in pieno. 

E noi, con tutto il rispetto per i motivi della protesta della Confail, per l’ennesima volta ci troviamo nella condizione di abbaiare alla luna: da anni ripetiamo che è una priorità assoluta rimettere mano alla legge sul diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, ma da anni la politica fa finta di non sentire. O meglio ascolta, pronuncia qualche parola di generico impegno, e poi allegramente se ne impipa. E tutto resta come prima, con centinaia di giornate annue di microscioperi locali che paralizzano il trasporto pubblico nelle città italiane, soprattutto in alcune che, come Napoli e Roma, già ordinariamente lamentano enormi problemi di servizi inefficienti e maxi squilibri finanziari. 
Qual è il punto che ogni volta torna vanamente d’attualità, di fronte a paralisi delle città dovute a scioperi di minisindacati? È l’eterno punto irrisolto della legge che disciplina il diritto di sciopero, la 146 del 1990. La questione è chiarissima. Non bastano più il vecchio codice di disciplina sui giorni minimi di preavviso per comunicare gli scioperi, i divieti per quelli a scacchiera, le previste procedure di raffreddamento delle vertenze. E sono inefficaci, i molteplici codici e accordi di autodisciplina di settore.
Non si tratta di proibire lo sciopero nei servizi essenziali. Bisogna semplicemente contemperare energicamente però due diritti distinti: quello dei lavoratori a scioperare, se però non è una minoranza a imporlo; e quello dei cittadini e delle imprese a non vedersi impedito il diritto alla mobilità, al lavoro, alla logistica di beni e servizi. 
Si tratta cioè semplicemente di prevedere come necessario, per poter proclamare uno sciopero, il voto preventivo a scrutinio segreto dei lavoratori. È più efficace questa semplice norma di ogni requisito minimo di rappresentanza sindacale, che conta di più invece per identificare i criteri di partecipazione alla trattativa di contratti e accordi aziendali, in cambio del fatto che chi li firma diventa poi responsabile della loro esigibilità. 
Bisogna prevedere il referendum obbligatorio. Come avviene del resto oggi in 17 paesi dell’Unione europea: non c’è in Francia né Spagna, ma c’è in Danimarca, Germania, Olanda, Portogallo, Regno Unito, in tutti i Paesi est europei e baltici. Solo fissando il criterio – nei servizi pubblici – di un voto preventivo favorevole di un quorum elevato di lavoratori, fosse per noi dovrebbe essere il 50,1%, e non dei delegati sindacali, si può venire a capo non solo dell’eccesso di scioperi nazionali il venerdì, ma anche e innanzitutto delle molte situazioni locali incancrenite in cui a bloccare le aree metropolitane sono sigle che non firmano - a differenza dei confederali - i piani industriali aziendali, per poi fare propaganda scioperante a spese dei cittadini e dell’economia nazionale. 
Renzi definì nel 2017 questi scioperi «uno scandalo». E ammise che è stato sicuramente un errore, non intervenire sulla legge 146. Anche perché, aggiungiamo noi, l’impegno dal suo governo era stato preso esplicitamente. «Non si possono lasciare a piedi centinaia di migliaia di persone, bloccando il trasporto aereo e le città. È grave che una minoranza poco numerosa condizioni la vita di intere collettività, quando la stragrande maggioranza dei lavoratori ha opinioni diverse. Dobbiamo darci nuove regole, intervenendo sulla legge in materia di diritto di sciopero e sugli accordi di settore. Stiamo parlando con le Autorità dei Trasporti e con l’Autorità di garanzia sugli scioperi, subito dopo assumeremo le decisioni del caso». Era il 15 aprile 2015, e così parlava il ministro Delrio. Dicendosi anch’egli i quell’occasione favorevole al voto preventivo con un minimo del 50,1% di favorevoli, per poter proclamare uno sciopero nei trasporti. 
Che fine ha fatto quell’impegno? Lo sappiamo. Il governo Renzi ha subito l’attacco tosto di una parte del sindacato su partite che considerava più importanti, come il Jobs Act e la riforma della scuola, e ha preferito a quel punto non intervenire sullo sciopero. Ha sbagliato. Gentiloni a propria volta non se l’è sentita di porre rimedio, malgrado il ministro sempre Delrio fosse rimasto.
Ci siamo baloccati nel frattempo nell’illusione che il nuovo corso delle Ferrovie dello Stato fosse di espandersi il più possibile nel trasporto pubblico locale. Lo ha fatto a Firenze con Renzi, e per questo Mazzoncini è alla testa di Fs, lo ha fatto entrando nella metro milanese con la linea M5, ha tentato di farlo in Lombardia acquisendo il controllo di Trenord. Lo ha fatto in Puglia con le Ferrovie SudEst, ha tentato di farlo a Roma prima che Atac finisse in concordato preventivo. E lo stesso sembrava volesse fare a Napoli, per le ferrovie urbane e le autovie gestite da Eav. 
Ma Fs ha già abbastanza guai di suo, avendo inglobato l’Anas con i suoi 9 miliardi di contenzioso, e ora si trova con 2 miliardi di patrimonio mancanti. Mentre a Roma come a Napoli i guai finanziari dell’Atac, dell’Eav e dell’Anm sono sempre enormi. Quel che continua ad accadere nel frattempo è che i diritti dei cittadini e delle imprese siano sempre violati sistematicamente, perché il diritto di sciopero delle microsigle sindacali è l’unico riconosciuto nel nostro ordinamento. 
Ogni tanto bisogna usare parole forti. È una vergogna, non tutelare il diritto dei cittadini. Doppia vergogna se avviene in città più martoriate di altre. Ecco perché la riforma del diritto di sciopero nei trasporti dovrebbe essere considerata dalla politica innanzitutto una misura di civiltà. Oltre che un passo essenziale perché l’intero settore torni a logiche di efficienza e sia un volano di sviluppo, non più un ostacolo irriducibile alla crescita e un indegno calvario per i cittadini.
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