Beni confiscati in Campania,
difendiamo il principio dell’integrazione

Beni confiscati in Campania, difendiamo il principio dell’integrazione
di Vittorio Martone *
Venerdì 28 Agosto 2020, 21:00 - Ultimo agg. 1 Settembre, 21:06
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Per proseguire nel confronto alimentato dai contributi di Carlo Borgomeo e di Ernesto Savona a valle della presentazione della curatela Politiche integrate di sicurezza. Tutela delle vittime e gestione dei beni confiscati in Campania, riporto alcuni spunti che sono emersi dalla ricerca contenuta nel volume.

Abbiamo guardato alla tutela delle vittime di criminalità e dei loro familiari e alla promozione del riuso dei patrimoni confiscati non solo come strumenti per il contrasto “indiretto” alle mafie, ma soprattutto come leve dell’azione pubblica per la coesione territoriale e lo sviluppo locale. Il principio dell’integrazione, configurando schemi multilivello in cui le autonomie locali cooperano con lo Stato e le agenzie di contrasto per l’elaborazione di interventi su scala urbana e territoriale, sposta la lotta alle mafie dalla mera repressione militare all’intervento sui contesti in cui esse si generano e si diffondono. Semplificando, agire sui contesti invita i governi locali a ri-politicizzare l’antimafia e a declinarla all’interno di più ampi quadri di sviluppo territoriale con interventi sulla componente fisica (riuso degli spazi e dei vuoti, luoghi della memoria, riqualificazione e bonifica di siti e terreni ecc.) e sulla componente sociale (tutela e inclusione dei familiari delle vittime, valorizzazione dei patrimoni confiscati per attività istituzionali o di promozione culturale, sociale ed economica ecc.).

Mi soffermo ora sul riuso dei patrimoni. Al 31 dicembre 2019, nello stock della Banca dati Centrale risultano quasi 210 mila beni interessati da procedimenti di prevenzione, di cui più di 95 mila effettivamente sottratti per sequestro o confisca. Un quarto del totale delle misure di prevenzione sono nel centro e nel nord Italia. In 8 casi su 10 sono destinati agli enti locali (specialmente i Comuni) e riutilizzati a scopi istituzionali, sociali o produttivi. E sul riuso? A oggi non esistono fonti ufficiali in merito all’effettivo riutilizzo. Nella ricerca in Campania abbiamo mappato 126 esperienze di riuso: attività prevalentemente rivolte al contrasto al disagio sociale che integrano l’offerta di servizi di welfare territoriale. Ci sono poi casi di imprenditoria innovativa nell’economia civile: su 126 progetti, in 40 sono portati avanti da imprese sociali, 22 delle quali attive sui terreni dell’entroterra dove, nella macrocategoria agricoltura, comprendono attività di produzione agroalimentare, fattorie didattiche, orti sociali, agriturismi. Esperienze importanti, ma la quota riutilizzata è minima rispetto al potenziale disponibile, per criticità riscontrabili prevalentemente al livello comunale, dove persiste un effetto “collo di bottiglia” che limita notevolmente le performance della filiera: lungaggini dei procedimenti di acquisizione e successiva destinazione; carente trasparenza e mancata pubblicazione dei dati; assenza di regolamenti e di pratiche di coinvolgimento e assegnazione al privato sociale; ritardi sulle certificazioni per rendere i beni agibili e fruibili o delle autorizzazioni per attivare i progetti. Tali criticità sono connesse prevalentemente a carenze di organico e di competenza, talvolta alla mera disattenzione e, in misura minore, ai timori di ritorsioni. Sullo sfondo, la generalizzata carenza di risorse, che induce le amministrazioni comunali a percepire l’adozione di un immobile come un onere irrisolvibile, non potendo (co)finanziare ristrutturazioni, bonifiche, iniziative sociali.

Nonostante tali criticità, l’abilitazione del locale e il principio dell’integrazione vanno difesi: i Comuni sono gli enti più prossimi al territorio, primo fronte per l’esercizio della pratica democratica e potenziarne le effettive capacità di cooperazione nelle politiche resta un’opportunità per sperimentare forme innovative di organizzazione sociale, economica e istituzionale ispirate ai principi della pubblica utilità e del benessere collettivo. Nel volume ricostruiamo esperienze di aggregazione intercomunale, introduzione di dispositivi per il coinvolgimento delle reti dei familiari delle vittime, strumenti di concertazione e di partenariato tra soggetti pubblici, privati e del terzo settore per il riuso dei beni confiscati che hanno spesso migliorato il coordinamento degli interessi nella società locale e l’elaborazione più corale di politiche urbane e territoriali. Esperienze che hanno talvolta contribuito a rilegittimare la fiducia nelle istituzioni del governo locale proprio laddove l’incapacità di regolare la vita civile, pubblica e sociale avevano offerto terreno fertile al radicamento mafioso.

Per questo ritengo che il ruolo dei Comuni e degli enti locali non vada aggirato attraverso forme di ricentralizzazione della materia, bensì ulteriormente sostenuto e qualificato, specialmente nella loro doppia funzione di detentori del patrimonio e di animatori dell’interazione tra pubblico e privato sociale su scala locale. A titolo di esempio, occorrerebbe promuovere strumenti di aggregazione intercomunale per l’ottimizzazione delle risorse e competenze di programmazione d’area vasta su fondi comunitari; potenziare le capacità amministrative finalizzate non solo alla trasparenza dei dati sui siti istituzionali degli enti, ma anche ad alimentare una propensione diffusa al riutilizzo; potenziare gli strumenti di coinvolgimento di enti e associazioni della società civile per favorire il riutilizzo ai fini sociali; infine, integrare ulteriormente i patrimoni confiscati nella pianificazione sociale di zona, per mettere i patrimoni a disposizione delle politiche sociali o adibirli a scopi abitativi e di accoglienza.

Specie quando collocati in aree interne e connotate da fragilità socioeconomiche, ambientali e demografiche, i patrimoni riutilizzati possono contribuire ai processi di riconversione di territori di cui proprio la densità mafiosa aveva ulteriormente aggravato la marginalizzazione. Ed è in questo senso che insistiamo nel dire che tali strumenti vadano considerati nel più ampio ventaglio di politiche pubbliche per la promozione di percorsi di sviluppo locale e coesione territoriale. Specialmente in questa contingenza storica, in cui la crisi sanitaria ha alimentato profonde riflessioni sui modelli di sviluppo e sulle criticità nel nesso tra crescita e uguaglianza. Un filo rosso collega diverse autorevoli posizioni emerse e concerne proprio la generale riscoperta della regolazione territoriale dello sviluppo (Manifesto per riabitare l’Italia), con enfasi sulla giustizia sociale e ambientale (Forum Disuguaglianze e Diversità) anche in riferimento alla coesione territoriale del Mezzogiorno (Ricostruire l’Italia. Con il Sud). Ecco, quale momento migliore per ridiscutere di contrasto alle mafie in un più ampio quadro di sviluppo autosostenibile e di ridiscussione del concetto stesso di valore dell’azione pubblica?

Curatore del libro “Politiche integrate di sicurezza. Tutela delle vittime e gestione dei beni confiscati in Campania”
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