La longa manus della camorra
e gli effetti della pandemia

La longa manus della camorra e gli effetti della pandemia
di Maura Ranieri *
Venerdì 8 Maggio 2020, 20:00
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La relazione pericolosa che intercorre tra mafie e lavoro è tutt’altro che clandestina; così come è altrettanto notorio il legame perverso che, troppo spesso, i gruppi criminali di stampo mafioso tendono ad instaurare con le imprese impiegando metodi non sempre violenti anzi, molto più frequentemente di quanto si immagini, attraverso approcci ascrivibili alla sfera della legalità, se pur talora solo apparente.

È dunque inevitabile, oltre che appropriato, interrogarsi sugli effetti che la pandemia potrà determinare su questa relazione ovvero se, come e quanto le mafie potranno trarre beneficio e forza dal contesto economico e sociale che si è venuto a creare. Ciò del resto è accaduto nei giorni passati anche attraverso appelli e interventi di autorevoli esponenti del mondo della politica, della giustizia, della cultura. Se, quindi, innalzare l’asticella dell’attenzione è comprensibile e utile; a mio modesto avviso, è altrettanto opportuno provare a fare un ulteriore sforzo al fine di evitare che, come a volte accade, ogni discorso intorno alle mafie finisca per essere depotenziato dall’assenza di conseguenzialità o, peggio, dalla confusione generata dalla diffusione incontrollata di stereotipi e luoghi comuni sul fenomeno mafioso.

In quest’ottica, allora, vorrei muovere da due concetti chiave per poi provare a spostare l’attenzione sulla necessità di una strategia sinergica e sistematica.

Il primo concetto chiave è il lemma crisi. Al di là di qualunque valutazione e/o accostamento in ordine all’esperienza che stiamo vivendo, è indubbio che essa alimenta una situazione di crisi (economica, occupazionale, sociale, giusto per citarne alcune declinazioni). Ora, come precisava qualche anno fa Paolo Grossi, “crisi” è concetto articolato che comprende “qualcosa che cade e qualcosa che sorge” sicché ogni momento di crisi reca, al contempo, difficoltà e opportunità. Ebbene, una prima acquisizione potrebbe essere la capacità e l’intenzione (politica, ma non solo) di sfruttare questa fase critica anche per una (ri)definizione delle strategie di contrasto alla criminalità organizzata di stampo mafioso.

Il secondo concetto chiave è il lemma complessità. Qualche giorno fa Luciano Brancaccio e Vittorio Mete, ci ricordavano dalle pagine on line de il Mulino, che le mafie sono rappresentate spesso come “egemoni, ricche e veloci” – e di certo lo sono – ma al contempo non sono prive di “debolezze e vulnerabilità” e, soprattutto, le mafie sono diverse le une dalle altre. Queste organizzazioni criminali sono polimorfiche e multidimensionali, in grado di assestarsi in tempi, spazi e luoghi differenti e dunque, a mio avviso, possono essere più opportunamente indagate attraverso il prisma della complessità.

Se, dunque, dalla tragica vicenda del Covid-19 si vuol provare a trarre qualcosa di positivo nel contrasto alla criminalità organizzata di stampo mafioso anche sul versante delle infiltrazioni nei settori economici e nel mondo del lavoro, e se le mafie sono fenomeni complessi è ora più che mai opportuno tentare di fornire una risposta altrettanto complessa attraverso la predisposizione di una strategia sinergica e sistematica che potrebbe agevolmente svilupparsi lungo tre direttrici: razionalizzazione, partecipazione, bilanciamento.

Quanto alla prima, vi è da chiarire che il nostro ordinamento giuridico si è molto arricchito negli ultimi anni di strumenti di contrasto alle infiltrazioni mafiose nei luoghi di lavoro (e non solo), ma tale irrobustimento non è sempre avvenuto in maniera razionale e coerente. Così, anche la pur opportuna introduzione del c.d. Codice Antimafia non ha consentito di superare le criticità che insistono, ad esempio, in ordine alla frammentarietà della normativa o al coordinamento tra le misure introdotte (basti pensare al panorama, tutt’altro che terso, degli strumenti di certificazione della legalità delle imprese). Sarebbe quindi oltremodo opportuno procedere, in prima battuta, lungo la strada della razionalizzazione della normativa esistente, anche al fine di assicurare l’effettivo funzionamento degli strumenti esistenti e l’efficacia delle misure adottate.

L’altra direttrice d’intervento potrebbe ravvisarsi nel rafforzamento delle logiche e degli strumenti partecipativi. In quest’ottica l’esperienza delle imprese sequestrate e confiscate alle mafie è particolarmente interessante, poiché per quanto, ad oggi, si tratti ancora di un terreno impervio - stante il numero risicato di imprese che riescono a restare nel mercato a seguito delle procedure di bonifica – è indubbio che su questo terreno si gioca una partita dirimente nella lotta alle mafie. Ebbene le (poche) imprese che riescono a sopravvivere ad un processo di infiltrazione e/o contaminazione mafiose sono quelle realtà produttive che affrontano il percorso di bonifica con un forte investimento partecipativo: sia sul versante interno (con il coinvolgimento attivo dei lavoratori, ancor più attraverso il sostegno delle organizzazioni sindacali), sia sul versante esterno (attraverso la creazione di filiere di supporto territoriale che coinvolgono diversi soggetti - pubblici e privati, individuali e collettivi, istituzionali e non -).

L’ultima direttrice potrebbe individuarsi in un bilanciamento più accurato degli interessi che emergono in queste circostanze, a fronte di un sistema fortemente segnato da logiche emergenziali e repressive che, pur se indispensabili, non possono essere esclusive. Vale a dire che, più in generale, sarebbe auspicabile nell’ambito delle strategie di contrasto contemperare in maniera più appropriata misure repressive e misure preventive, così come appare indispensabile affiancare a tali strategie l’adozione di adeguate politiche (economiche, sociali, del lavoro) al fine di rafforzare i tessuti (territoriali e produttivi) e renderli meno permeabili. Sicché, ad esempio, l’introduzione del reato di sfruttamento lavorativo volto (anche) a contrastare le infiltrazioni mafiose nel lavoro, al di là delle criticità persistenti nella formulazione legislativa, non è di certo sufficiente ad aggredire un fenomeno complesso ancor più se non è affiancato da interventi mirati di sostegno, controllo e tutela dell’occupazione.

In conclusione, dunque, la nefasta esplosione pandemica degli ultimi mesi potrebbe essere sfruttata quale occasione per (ri)progettare e (ri)disegnare una strategia complessa di contrasto alla criminalità organizzata di stampo mafioso che ponga al centro il lavoro anzi che riparta dal lavoro “buono, pulito e giusto” ovvero quel lavoro intriso di dignità consegnatoci dalla Costituzione e che lo impieghi come grimaldello per scardinare gli ingranaggi dei gruppi criminali e le loro attività, legali e illegali, con la stessa cura e precisione con cui Vincenzo Buonocore, nella intramontabile narrazione di Ermanno Rea, smontava e disincastrava bullone per bullone l’impianto in via di dismissione.

* professoressa associata DiGES UniCz

** Articolo redatto nell’ambito del progetto Mafie e Coronavirus a cura del Comitato Scientifico della Fondazione Polis
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