Morire di fame, dimagrire fino alla consunzione, centellinare il cibo, rifiutarlo fino a compromettere muscoli, ossa e organi vitali: l’anoressia nervosa non è solo un dimagrimento patologico o una dieta troppo spinta ma una vera e propria patologia psichiatrica che comporta una profonda incapacità di percepire correttamente il proprio schema corporeo. Chi ne è affetto pur ridotto pelle e ossa guardandosi allo specchio continua a vedere troppo grasso. Qualcuno l’ha definita la depressione nel corpo: l’altra faccia della medaglia è la bulimia, la tendenza a mangiare in maniera compulsiva con o meno un vomito provocato intenzionalmente.
Un problema di sanità pubblica di crescente importanza per la diffusione, l’esordio sempre più precoce tra i giovani, le cause sfuggenti e multifattoriali. Si tratta di patologie severe con rischio di gravi compromissioni cliniche e se non trattate in tempi e con metodi adeguati, possono esitare nella morte o compromettere seriamente organi e apparati (cardiovascolare, gastrointestinale, endocrino, ematologico, scheletrico, sistema nervoso centrale, dermatologico e altro). Secondo i dati dell’Istituto superiore di sanità circa il 40 per cento dei pazienti trattati in strutture specializzate migliora e convive col suo disturbo senza grossi danni ma spesso resta un “rumore di fondo” rappresentato da sintomi ossessivo-compulsivi con cui si convive per tutta la vita. In Italia dal 2017 queste patologie sono state inserite nei Lea (Livelli essenziali di assistenza) ma le Regioni procedono in ordine sparso. Solo in 9 aree (Veneto, Lombardia, Lazio, Umbria, Emilia-Romagna, Liguria, Toscana, Sicilia e Valle d’Aosta) vi è una rete completa a fronte della mancanza totale di servizi in Molise. Le strutture censite sono in tutto 126 delle quali 112 pubbliche e 14 del privato accreditato. Il maggior numero dei centri (63 su 126) si trova al Nord, con picchi in Lombardia ed Emilia Romagna (rispettivamente 15 e 20); nelle regioni del centro sono 23 e al Sud 40 di cui 7 in Sicilia e 12 in Campania ma non tutti funzionano per carenze di personale e di risorse.
In Italia si stima tali disturbi coinvolgano circa tre milioni di persone, il 90% donne, e oltre 2 milioni adolescenti.
Cause e fattori di rischio? Sono individuali, familiari, socio culturali. La difficoltà di accettare sé stessi e il proprio fisico, unita all’essere bersaglio di comportamenti offensivi che denigrano il corpo, possono causare stati depressivi e di ansia e scatenare il disturbo che agisce sempre su una fragilità, genetica, culturale e ambientale. Spesso un’esperienza di body sharing può essere determinante. «I percorsi terapeutici danno oggi risultati molto confortanti - spiega Alessandro Raggi, psicologo esperto e vicepresidente della fondazione Ananke di Villa Miralago - ma a patto di tempestività della diagnosi e del trattamento, continuità delle cure e approccio multidisciplinare alla malattia».
Alla vigilia della pandemia la Campania, con 600 casi all’anno, era in vetta con più casi diagnosticati, insieme a Calabria e Sardegna ma pur contando sul maggior numero di centri dopo Lombardia ed Emilia scontava la più alta mortalità ed emigrazione sanitaria. La consigliera regionale Valeria Ciarambino ha presentato un progetto di legge ad hoc che punta sulle attività di prevenzione e sensibilizzazione per contrastare i fattori di rischio, informare e formare chi è a contatto con persone potenzialmente a rischio, strutturare meglio la rete di cura con centri ambulatoriali e ospedaliere dedicati. Si va dall’attivazione nei pronto soccorso del “Percorso Lilla” previsto dal ministero della Salute nel 2018 per intercettare malati e avviare un percorso specialistico integrato alla presa in carico precoce, da attività di screening in ambito scolastico, sportivo e di aggregazione giovanile a indagini epidemiologiche, fino al rafforzamento della Rete assistenziale multidisciplinare (ambulatoriale, residenziale, ospedaliero).