Corte di Strasburgo: Contrada non andava condannato. All'ex capo del Sisde 10 mila euro di risarcimento

Corte di Strasburgo: Contrada non andava condannato. All'ex capo del Sisde 10 mila euro di risarcimento
Martedì 14 Aprile 2015, 10:32 - Ultimo agg. 15 Aprile, 15:37
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Bruno Contrada non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perchè, all'epoca dei fatti (1979-1988), il reato non «era sufficientemente chiaro».

Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani. Lo Stato italiano deve versare all'ex numero due del Sisde 10 mila euro per danni morali.



Contrada. «Ventitre anni di vita devastati non potrà restituirmeli nessuno. Così come i 10 anni trascorsi in carcere». È il primo commento di Bruno Contrada alla decisione della corte europea per i diritti umani sulla sua vicenda giudiziaria. «In questi 23 anni, terribili per me e per le persone che mi vogliono bene, c'è stata sofferenza incredibile - ha proseguito Contrada - che si è manifestata in qualsiasi forma: fisica, morale, professionale e familiare». «La devastazione totale ha accompagnato ogni giorno della mia vita dal 1993 in poi - ha aggiunto - Mi è stato tolto tutto. La corte europea mi ha dato giustizia ma non ci può essere soddisfazione. La giustizia italiana deve recepire questa sentenza. Io voglio giustizia dall'Italia». Contrada è ansioso di leggere le motivazioni di Strasburgo. «Voglio capire come è possibile che i giudici europei hanno capito quello che in Italia non hanno ancora compreso - ha detto - Sinceramente non capisco come sia possibile». Adesso Contrada spera che la sentenza di Strasburgo possa avere conseguenze anche sulla richiesta di revisione del processo. «Questo pronunciamento ha un valore - ha concluso - che la giustizia italiana non può ignorare».



«Adesso il nostro obiettivo è avere una sentenza che in sede di revisione assolva in toto Bruno Contrada». Lo ha detto all'Adnkronos l'avvocato Giuseppe Lipera, legale dell'ex numero due del Sisde, commentando la sentenza della Corte europea dei diritti umani secondo cui Contrada non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perché, all'epoca dei fatti (1979-1988), il reato non «era sufficientemente chiaro». «Finalmente qualcuno si accorge che in Italia si è applicata una norma che non esisteva - ha aggiunto - Auspico che questo possa essere un ulteriore elemento per ottenere la revisione della condanna».



La vicenda. Da 23 anni la sua vicenda giudiziaria tiene banco non solo nelle aule di giustizia italiane ed europee ma anche nel dibattito politico e giudiziario perchè Bruno Contrada, 84 anni, napoletano ma palermitano d'adozione, quando fu arrestato era ai vertici degli apparati investigativi italiani, numero tre del Sisde, dopo aver percorso tutte le tappe dell' investigatore da dirigente di polizia ad alto funzionario dei servizi segreti nell' arco di un trentennio.
Arrestato, la vigilia del Natale '92, l'anno delle stragi palermitane, poi a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa, è stato condannato a 10 anni di carcere il 5 aprile '96. Sentenza ribaltata in Corte d'appello il 4 maggio 2001: assolto. La Cassazione ha rinviato gli atti a Palermo. Poi la nuova condanna a 10 anni nel 2006, dopo 31 ore di Camera di consiglio della Corte d'appello palermitana, e la conferma della Cassazione l'anno successivo. Quindi il carcere, i domiciliari e poi la fine pena nell'ottobre 2012. Sono poi cominciati i tentativi di revisione del processo e gli appelli alla corte di Strasburgo per i diritti umani. Italia condannata due volte: nel febbraio 2014 perchè il detenuto non doveva stare in carcere quando chiese i domiciliari per le sue condizioni di salute e oggi perchè l'ex poliziotto non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perchè, all'epoca dei fatti (1979-1988), il reato non «era sufficientemente chiaro». Contrada in questi anni ha sempre combattuto per «salvaguardare - diceva - l'onore di un uomo delle istituzioni». «Voglio l'onore che mi hanno tolto, non ho perso fiducia nello Stato» ripeteva. Ha parlato dei tanti collaboratori di Giustizia che lo accusavano, con disprezzo, ricordando quando lui e i suoi uomini della questura di Palermo li arrestavano trattandoli come delinquenti e presentavano ai magistrati dossier corposi sulla mafia. E si è sfogato, in questi anni, con gli amici su quella nebbia che nel processo è sembrata calare sul suo rapporto col capo della mobile di Palermo, Boris Giuliano, assassinato nel luglio '79 da Leoluca Bagarella mentre prendeva un caffè da solo al bar. «Eravamo due fratelli - ha detto - lavoravamo fianco a fianco. Non mi sono mai fermato nelle indagini sul suo omicidio». Sono stati scritti almeno quattro libri sulla sua vicenda giudiziaria e migliaia di articoli di giornale che hanno aperto dibattiti nel mondo politico e che hanno diviso l' opinione pubblica italiana.
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