Cuffaro: «Mai più in politica, andrò volontario in Burundi»

Cuffaro: «Mai più in politica, andrò volontario in Burundi»
di Antonio Manzo
Lunedì 14 Dicembre 2015, 09:11
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«Ero Totò in Sicilia, sono stato accolto in carcere come Totò, resto Totò lasciando Rebibbia dopo cinque anni di carcere». Totò Cuffaro è interdetto dai pubblici uffici a vita ma, dice subito, che nessuno potrà «mai interdirlo dal pensiero e dalla parola». Sia chiaro, dice però l’ex governatore della Sicilia, «farò politica ma deluderò tutti i miei amici che ancora militano nei diversi partiti. Farò politica dedicandomi al volontariato. Il 30 marzo prossimo me ne andrò in Burundi, farò il medico in un ospedale che costruimmo con fondi regionali».

Totò Cuffaro alle dieci e quattro minuti esce dal carcere di Rebibbia. Via Majetti 70 Roma la sua ultima «residenza».

«È bello respirare la libertà» queste le prime parole dell'ex governatore mentre sullo «station wagon» del fratello carica dodici cartoni, con 14mila lettere ricevute, decine di libri, ed anche quel sacchetto nero di plastica con tutte le cose della vita quotidiana del detenuto che lascia il carcere.

Sul nero della plastica spicca un foglietto rosa, l’ultima carta di identità del detenuto Cuffaro: il numero di matricola 93454, la data di nascita - 21/02/58 - e la data di uscita da Rebibbia. Riparte così, per la «sua» Sicilia dopo aver scontato cinque anni di carcere perché grazie alla sua rete di “talpe” aiutò l’imprenditore della sanità siciliana Michele Aiello e il boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro a eludere le indagini, ma non favorì l’organizzazione «Cosa nostra» nel suo complesso.

Entrò a Rebibbia con il fronte dell’antimafia apparentemente unito, ora è spaccato. Direbbe Pietrangelo Buttafuoco, scrittore siciliano: «La favola della primavera, della rivoluzione e dell’antimafia è finita a fischi e piriti».

Dodici ore di autostrada per raggiungere Raffadali, in provincia di Agrigento. C’è tempo per parlare. Si scusa: «Non abbiamo potuto prendere l’aereo, dove avremmo messo tutti questi cartoni?».


Cominciamo dalla famiglia: la prima tappa sarà a casa di sua madre ammalata. La stessa donna, con l’Alzheimer, che il giudice di sorveglianza, Valeria Tommasini, non le consentì di visitare.


«È l’abbraccio che aspetto da tempo, più della mia stessa libertà. Fu un atto senza umanità».

Come se lo spiega?

«Non me lo spiegherò mai, neppure dopo che tra poche ore la riabbraccerò. Perché mi negarono il permesso di poterla visitare scrivendo testualmente: ”Il deterioramento cognitivo della paziente, evidenziato, svuota senz'altro di significato il richiesto colloquio poiché sarebbe comunque pregiudicato un soddisfacente momento di condivisione”. Vuole che traduca?».

Certo, è un uomo libero.

«Mi dissero: inutile che ti diamo il permesso, tua mamma non capisce più nulla, è affetta da demenza senile. Anche Foscolo riconobbe la corrispondenza di amorosi sensi con i morti».

L’ultimo gesto di umanità che ricorda del carcere, prima di esser rimesso in libertà.

«Ieri pomeriggio (sabato per chi legge; ndr) alla fine della Santa Messa del sabato, celebrata dal parroco don Angelo. Nel giro di pochi minuti sarebbero arrivati dei fratelli islamici che, a modo loro, mi hanno voluto salutare con una canzone».

Che canzone le hanno dedicato?

«Mi hanno cantato "Hurricane", la canzone che nel 1975 Bob Dylan dedicò alla storia del pugile ingiustamente accusato d’omicidio e che era in carcere da alcuni anni».

Lei la conosceva?

«Il suono sì, le parole in inglese un po', poi sono andato a rileggermi la traduzione in italiano. Eccola: questa è la storia di Hurricane, l’uomo che le autorità avevano condannato per qualcosa che non aveva mai fatto. Lo misero in prigione ma un tempo egli sarebbe potuto diventare il campione del mondo».

Ma lei davvero si professa innocente?

«Per la giustizia non posso farlo, ma per la mia coscienza dico sì. Io sono andato a sbattere contro la mafia, non l’ho favorita. Ho fatto errori e non mi nascondo. Io ho pagato, gli altri no».

Chi sono stati i suoi compagni di cella?

«Eravamo in quattro, tra cui due fratelli islamici Allahd e Mod con i quali ho condiviso, in pochi metri quadrati, la preghiera dopo gli attentati di Parigi. Inginocchiati, io con lo sguardo rivolto al Crocefisso e loro rivolti al muro con lo sguardo alla Mecca. Prima che uscissi dal carcere mi hanno voluto dedicare la loro preghiera alla Madre, è nel Corano. È la Sura di Maria».

Come trascorreva la sua giornata in carcere?

«La sveglia alle cinque, ho sempre dormito poco, massimo due tre ore. Ho scritto i miei tre libri pubblicati in questi anni anche di notte. Mi ero fatto una specie di ”lumetto” con il fascio di luce che finiva direttamente sul foglio. Utilizzai il cilindro della carta igienica. Ho scritto moltissimo, anche di notte. Alle 7,30 è la sveglia del carcere. Alle 8,20 ti aprono la cella e fino alle 10 io ho sempre fatto corsa, ogni giorno. Alla 13,20 ora d’aria e poi il pomeriggio con la sera che sembra non arrivare mai. La notte, che per chi soffre, è sempre più lunga del giorno».

Ha trovato il tempo per studiare giurisprudenza?

«Debbo solo discutere la tesi di laurea».

Che tesi ha fatto?

«Luci ed ombre dei decreti-svuotacarceri. Relatore il professor Giorgio Spangher, docente di procedura penale all’università La Sapienza. Chiederò di discutere la tesi in carcere tra i miei compagni».

Che effetti hanno avuto quei decreti?

«Quasi nulli».

Lo avrà fatto notare agli oltre cento politici che son venuti a trovarla in carcere?

«Chi fa le leggi, soprattutto quelle sulla libertà personale, non può limitarsi alla denuncia degli effetti successivi che producono».

Di cosa allora ha discusso con i politici?

«Della pena di morte all’italiana. Il ”fine pena mai” è una pena di morte camuffata. Ho assistito a quattro suicidi in carcere, compreso a quello di un mio vicino di cella. Con la lametta da barba si era reciso la vena giugulare».

Lei ha incontrato in carcere Benedetto XVI e Francesco. Cosa le hanno detto?

«A Ratzinger regalai il mio libro ”Il candore delle cornacchie”. Mi scrisse una lettera bellissima».

Si consegnò al carcere che c’era Berlusconi a Palazzo Chigi. Ora si ritrova Renzi a capo del governo. Come ha vissuto questi cambiamenti?

«In cella c’è la tv per tutta la giornata. Non mi è piaciuta questa rottamazione fine a se stessa, come slogan che ha colpito anche uomini politici seri, credibili. Ma debbo ammettere che Renzi è il meglio che possa offrire il mercato della politica. Se fosse solo un po’ meno irruente...».

Apprezza Renzi per il «sangue democristiano»?

«Anche per quello. Io sono democristiano, vengo dai giovani dc epoca Lusetti, Pistelli, tanto per capirci. Lui Renzi prima giovanissimo dc, poi Popolare ed infine Margherita e Pd».

Berlusconi?

«Lo abbiamo amato, ma ora è finito».

I centristi?

«Bandiere ferme, ammainate. Malinconicamente». Sarà mai risolto il conflitto politica-magistratura in Italia? «Deve essere risolto. Ma la magistratura non guadagna la fiducia dei cittadini con sentenze come quelle per Stasi nel caso Garlasco. Non è bello, così».

Ha saputo dell’assoluzione di Mannino?

«La sua storia politica mai contigua con la mafia. Ho pianto per lui, mi ha educato alla politica tra la gente. Anzi, tra il popolo. Come facevano Sturzo e De Gasperi».

È vero che sua figlia tenterà il concorso in magistratura?

«Sì, sono contento.
Lei sconfiggerà la mia sconfitta».