La dottoressa Malara, nominata Cavaliere: «Ho curato il paziente 1 ma non sono un'eroina»

La dottoressa Malara, nominata Cavaliere: «Ho curato il paziente 1 ma non sono un'eroina»
di Lucilla Vazza
Venerdì 5 Giugno 2020, 08:15 - Ultimo agg. 17:38
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La dottoressa Annalisa Malara non vuole passare per la prima della classe. Nonostante i riconoscimenti pubblici, gli articoli che parlano di lei, pochi giorni fa la nomina di Mattarella a Cavaliere della Repubblica condivisa con la collega Laura Ricevuti, che con lei ha fatto la diagnosi al paziente 1. «Non siamo eroi, siamo lavoratori scrupolosi», ripete l'anestesista di Cremona, da otto anni all'ospedale di Lodi, e quasi si imbarazza quando le si ricorda che senza la sua intuizione, Mattia di Codogno, non sarebbe diventato il paziente uno e chissà quanti altri giorni sarebbero stati persi prima di fare i conti con l'epidemia di coronavirus.

Dottoressa, è stata brava: possiamo dirlo?
«Ho fatto solo il mio dovere. Con i colleghi abbiamo lavorato in modo attento, come sempre. Tra l'altro, io sono anestesista-rianimatore, siamo pochissimi e poco conosciuti. La crisi ci ha fatti conoscere al grande pubblico, ma siamo ancora pochi e sempre in prima linea, non solo per questa emergenza».
Mattia Maestri, il paziente 1, ha 38 anni, è un suo coetaneo. Ha visto altri giovani così gravi?
«Mattia aveva una situazione anomala, ma quello che mi ha fatto accendere la lampadina è stato il racconto della moglie, la cena con l'amico di ritorno dalla Cina, poi negativo al tampone. In terapia intensiva avevamo pazienti tra i 50 e 60 anni, con molti pazienti tra i 38 e 45. Il giorno dopo il ricovero di Mattia, abbiamo portato in terapia intensiva un 42enne, anche lui intubato con un quadro drammatico».
Com'è cambiata la sua vita in questi mesi?
«Ho lavorato tantissimo, inizialmente avevamo un problema di organico perché tanti di noi si sono ammalati. Siamo arrivati a essere 4 rianimatori nei turni di 24 ore. Quando non lavoravo cercavo di recuperare. L'unico svago era qualche videochiamata e un po' di palestra su Zoom».
Come la vedono i suoi amici, ora che è famosa?
«Chi mi conosce bene sa che non mi considero niente più che un medico scrupoloso, non un'eroina. Non penso di essere diversa, si ride e si scherza come prima. Forse sono più sicura di quello che sono».
Qualche suo amico o familiare è stato colpito dal Covid-19?
«Molti colleghi del mio stesso team si sono ammalati. Mi ha turbato vederli dall'altra parte della barricata. Quando ho visto la tac del primo collega con i segni polmonari dell'infezione, mi sono commossa: ho visto quanto siamo vulnerabili. La malattia ha annullato ruoli e distanze».

Poi c'è l'aspetto della comunicazione con i familiari.
«Abbiamo tenuto un filo diretto con i parenti, comunicando i progressi ma anche le notizie più brutte, i peggioramenti, la morte. A telefono eravamo occhi e orecchie dei familiari che avrebbero dato chissà cosa per essere al fianco del proprio caro. È stata la cosa più difficile, peggio, molto peggio del colloquio di persona.
Un'esperienza drammatica, una vicinanza col malato mai avuta prima, che ci ha fatto crescere».
Ha avuto paura di ammalarsi?
«Sì, soprattutto nei 4 giorni che sono stata a casa dopo la diagnosi del primo paziente. Sono rimasta con gli stessi colleghi in ospedale per 36 ore di fila, perché non volevamo esporre al contagio altro personale. Poi a casa ho realizzato quello che stava succedendo. Avevo paura di finire in terapia intensiva».
I suoi familiari, i suoi amici, erano preoccupati? Le hanno mai detto, ma chi te lo fa fare?
«Avevo molta paura a dire ai miei genitori di aver ricoverato il primo paziente Covid. Invece sono stati eccezionali, non mi hanno mai scoraggiata. E così anche gli amici. Nessuno mi ha detto cambia lavoro, non l'avrei accettato».
Cosa resta dopo la fase più dura?
«Dai primi di maggio i ritmi si sono quasi normalizzati e quando è iniziata a calare la pressione è stato come se qualcuno avesse fatto un fermo immagine di quel che è successo. È importante parlarne. Se non ricordiamo noi, come possono farlo gli altri? È un po' come il ricordo della Shoah, sono eventi così assurdi, che si vuole dimenticare, ma è giusto perpetuarne la memoria. Non voglio dimenticare quelle persone anziane e sole, quel dolore senza parole. Dobbiamo fare tesoro di quel che è successo».
Si ritiene un esempio?
«In una videoconferenza una specializzanda mi ha detto da grande voglio diventare come lei, mi ha emozionata. Nel nostro lavoro la cosa più importante è il paziente».
C'è qualcosa che l'ha delusa?
«Ho sentito tante polemiche, tante recriminazioni, in realtà credo che quando c'è una crisi così forte che determina la malattia e la morte, si debba lavorare in modo compatto nella stessa direzione. Dal collega che si lamenta perché non ha il riposo fino al politico che cerca di sfruttare la situazione per altri scopi: questo non si fa, questo mi ha deluso».
 


 

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