Il ritratto di Trump:
l'american dream dell'abile Donald

Il ritratto di Trump: l'american dream dell'abile Donald
di Mario Del Pero
Mercoledì 9 Novembre 2016, 05:01 - Ultimo agg. 05:03
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Ha avuto gioco facile, Barack Obama, a ironizzare sulle tante incongruenze della campagna elettorale di Donald Trump. «Come on, Man!», lo ha schernito il Presidente durante un recente comizio: «Questo è un uomo che ha speso la gran parte del suo tempo cercando di convincere tutti di essere membro di una élite globale; a parlare di quanto immensi sono i suoi edifici, del lusso e della ricchezza in cui vive … Ha avuto tempo solo per le celebrità e ora improvvisamente si presenta come un populista che combatte per i lavoratori».

Difficile in effetti, immaginare un campione più improbabile di molti di quegli elettori bianchi, dai bassi livelli di reddito e istruzione, che lo hanno sostenuto e votato con entusiasmo. Il Donald Trump paladino di poveri e oppressi induce inevitabilmente al sarcasmo. E però, un rapido sguardo alla sua storia e alla sua biografia ci dice che, nel bene e nel male, c’è una logica dietro tutto ciò. Che il Trump star dei media e immobiliarista – abile, spregiudicato e, a quanto pare, spesso borderline rispetto alla legge – in una certa misura sia espressione di una storia tutta americana, nella quale un pezzo di paese sembra immedesimarsi molto di più rispetto a quella, più convenzionalmente accademica e politica, della sua avversaria.

Trump nasce settant’anni fa nel Queens a New York. La sua è una famiglia di origini tedesche e scozzesi, lui è il secondo di cinque figli uno dei quali, il fratello maggiore Fred Jr., morirà di alcolismo nel 1981. La parabola della sua famiglia è quella del sogno americano in azione, un dato che aiuta a spiegare il fascino che oggi – a dispetto di tutto – Trump ancora proietta. Il padre, Fred, cerca fortuna nei business classici dell’epoca, prima i supermercati poi l’immobiliare. Riuscirà a farla costruendo, affittando e vendendo abitazioni modeste ma dignitose destinate soprattutto a famiglie di militari. I metodi sono quelli dello spregiudicato imprenditore che opera in un mercato, a New York e sulla East Coast, dove vigono pochi scrupoli. Sarà soggetto a varie indagini per corruzione e per discriminazione razziale nei confronti dei suoi affittuari. Tra questi, in un appartamento di Brooklyn, vi fu per un paio d’anni anche il leggendario cantante Woody Guthrie, che a Fred Trump - «Old Man Trump» - dedicò alcune righe severe dei suoi diari, recentemente venute alla luce, nelle quali censurava il razzismo dell’immobiliarista.

La spregiudicatezza non mancò nemmeno al figlio Donald. Che non eccelse negli studi, ma si laureò comunque in una scuola destinata a divenire assai prestigiosa, la Wharton School della University of Pennsylvania. E che riuscì a evitare – prima grazie agli studi e poi a problemi fisici - la coscrizione che lo avrebbe mandato in Vietnam (molti anni più tardi, con una tipica «trumpata», avrebbe detto che il suo «Vietnam personale» in quegli anni fu «evitare di contrarre malattie trasmesse attraverso rapporti sessuali: fui anch’io un grande e coraggioso soldato»).

La sua carriera di businessman iniziò già durante gli anni dell’università. Terminata la quale, si gettò a capofitto negli affari di famiglia. Negli affari e, anche, negli eccessi di una vita newyorchese che sembrava costituire l’ambiente naturale per un uomo come lui. Negli anni settanta, la crisi, drammatica, della città gli offrì opportunità inimmaginabili, tra le quali nel 1978 la ristrutturazione del Grand Hyatt Hotel, a fianco alla meravigliosa stazione di Grand Central. La successiva, graduale rinascita di New York, e di Manhattan in particolare, esaltò un’estetica urbana e architettonica – non di rado pacchiana ed eccessiva – che Trump cavalcò con abilità ed entusiasmo. La sublimazione del trumpismo fu la sua Trump Tower sulla 5a strada: un grande grattacielo destinato in una certa misura a diventare il simbolo della New York degli anni Ottanta, dei suoi eccessi e delle sue illimitate ambizioni. Seguirono altri grattacieli, varie grane legali e diverse bancarotte. Seguì, soprattutto, un’ansia spasmodica di stare sotto i riflettori: di usare un’opulenza grossolana e ostentata per porsi al centro della scena pubblica. I media e la stampa gli diedero una mano. Così come centrale fu la vicenda del suo divorzio dalla prima moglie, Ivana, un’immigrata cecoslovacca con la quale aveva condiviso ambizioni e protagonismo (la terza, e attuale moglie, Melania viene invece dalla Slovenia, cosa che ha indotto l’ultimo candidato repubblicano alla Presidenza, Mitt Romney - un feroce critico di Trump - a dire che «effettivamente ci sono lavori che nessun americano è disposto a fare»). Il divorzio con Ivana occupò lo spazio mediatico e divenne soap opera planetaria: una sorta di reality che negli anni Novanta scorreva in parallelo con le principali serie televisive statunitensi.

Che questa mania di protagonismo abbia giovato al businessman Trump non è certo. Negli ultimi vent’anni si è lanciato in molteplici avventure imprenditoriali, con risultati discutibili, fallimenti eclatanti (i suoi casino ad Atlantic City) e successi inattesi, come il reality televisivo da lui prodotto e guidato, «The Apprentice» (l’apprendista), dove i concorrenti si sfidano per ottenere un posto da un boss – Trump – autoritario e brutale, o i tanti Miss Stati Uniti e Miss Universo che ha gestito e venduto a importanti network televisivi.

La diversificazione delle sue attività, che a un certo punto ha portato anche alla creazione di una fantomatica «Trump University» (per la quale un’indagine è oggi in corso), non sembra a sua volta avere aiutato gli affari. E da più parti si rivelano oggi i tanti insuccessi di un imprenditore le cui attività sono spesso coperte da una coltre di opacità e segretezza. Di certo, però, l’ego di Trump non poteva più essere contenuto dentro il mondo dell’imprenditoria, per quanto variegato ed eccentrico esso potesse diventare. Ed ecco che negli ultimi quindici anni Trump ha cominciato a flirtare sempre più con la politica, cambiando più volte affiliazione partitica – prima repubblicano, poi democratico, poi ancora repubblicano con un interludio da indipendente – e gettandosi spregiudicatamente su temi che gli potessero dare una qualche visibilità. L’ultimo in ordine di tempo è stata la campagna, invero spregevole, atta a dimostrare che Obama non fosse nato negli Usa e occupasse quindi abusivamente la carica di Presidente. 
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