«L'Invalsi non è il Vangelo: servono fondi alla scuola e professori più formati»

Parla Francesca Marone, professore di pedagogia generale e sociale

Francesca Marone
Francesca Marone
di Mariagiovanna Capone
Venerdì 14 Luglio 2023, 10:28
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Il Rapporto Invalsi 2023 ha mostrato la dicotomia con i territori del Paese, dove al Sud attraverso la scuola vengono a galla tutte le fragilità esistenti. Ne abbiamo parlato con Francesca Marone, professore di pedagogia generale e sociale al dipartimento di Studi Umanistici all'Università degli Studi di Napoli Federico II.

Dal suo punto di vista, le prove Invalsi servono?
«Credo che queste prove servano da un punto di vista dell'analisi della situazione, nel corso degli anni ha permesso comunque di far mettere in campo dei cambiamenti, ha dato voce ai dirigenti scolastici che lavorano nei nostri territori ed è evidente che sono stati apportati dei correttivi grazie a Invalsi.

Soffermandomi oltre i numeri, che noi del settore conosciamo già, mi viene da dire che Invalsi forse ci mostra quello che in fondo conosciamo già. Non demonizzo queste prove però francamente nemmeno possiamo ragionare solo su questi dati e ridurre la scuola ai test».

Come dovremmo usarli allora?
«Possono un po' fungere da cartina di tornasole, mostrando sulle competenze come siamo messi. Però a un certo punto bisogna guardare alla complessità delle situazioni, soprattutto guardare ai processi che li hanno generati, e mettere in campo delle risorse per il cambiamento, sennò l'anno prossimo staremo a parlare coi va meglio o va peggio. Ci sono degli elementi che ci aiutano a capire come sono messe le famiglie, quali sono gli elementi di partenza del contesto e anche qual è il lavoro messo in atto dalle scuole. Sulla dimensione del processo educativo non ci possono aiutare. Invalsi quindi non è esaustivo di tutta la questione scuola. E non possiamo nemmeno stare a parlarne ogni anno per una decina di giorni di scuola, senza procedere verso la direzione del cambiamento che questi dati ci mostrano».

Quali potrebbero essere i cambiamenti da applicare alla scuola?
«La scuola necessità di una vision, di un'attività di networking, di risorse e di politiche adeguate e invece purtroppo questo manca. Si lavora solo sulla lettura dei dati. Mentre il focus dovrebbe concentrarsi su alcune trasformazioni anche in funzione degli apprendimenti. Quindi la questione del digitale, dell'iper connessione con poca lettura critica delle situazioni, della prevalenza di immagini sui ragionamenti. Questi sono elementi su cui dobbiamo ci confrontare, così come ci dobbiamo confrontare sulla formazione dei docenti, che è ancora carente rispetto ad alcune situazioni emergenziali come la cultura delle differenze, l'alfabetizzazione emozionale, le questioni collegate alle relazioni di genere e al rapporto delle differenze. Dobbiamo lavorare molto in questa direzione. C'è un punto, poi che non viene considerato ma che io trovo sia importante».

Quale?
«Non si parla più di alcune risorse, come il patrimonio culturale, che possono essere strumento di conoscenza, veicolo di acquisizione di competenze e possono essere poi anche volano per il futuro. Perché creare impresa sul patrimonio culturale significa puntare sullo sviluppo del Paese. Durante il lockdown questo aspetto è stato messo da parte, invece è un diritto di tutti, è un'esperienza democratica, è lavorare con i linguaggi divergenti e dà senso alla nostra storia: il patrimonio culturale è un collante sociale. Favorisce appunto il legame sociale di comunità e, soprattutto nel Sud e nella Regione Campania, dovremmo avere un piano delle arti con attività che vanno implementate nei nostri tessuti. Quindi, il dibattito sulla scuola non si deve esaurire alla questione delle competenze che Invalsi oggi intercetta».

Perché si fa fatica a mettere la scuola al centro del dibattito politico?
«È chiaro che un investimento di ampia portata e lunga durata non interessa alla politica. Per molti è un investimento che non conviene. Poi, paghiamo lo scotto, che i professionisti della scuola per tanti anni sono stati solo donne. Le donne non erano prese in considerazione, erano vessate dal sapere maschile. Oggi assistiamo invece a una maggiore presenza maschile all'interno del mondo dell'educazione, sia l'istruzione superiore sia anche negli asili, ma siamo lontani da una rivoluzione. La scuola pubblica deve essere messa nelle condizioni di offrire opportunità non solo a certi ceti sociali, ma a tutti».
 

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