La prima volta di Vincenzo Coppola:
«Grazie al Vernacoliere
ho ideato Telegaribaldi»

La prima volta di Vincenzo Coppola: «Grazie al Vernacoliere ho ideato Telegaribaldi»
di Maria Chiara Aulisio
Venerdì 20 Marzo 2020, 18:00
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Un biglietto, due film. Un vecchio western anni Sessanta, modello Mucchio selvaggio, e poi un'altra pellicola di ultimissima visione che - dopo aver girato le sale di tutto il paese - arrivava finalmente a Pompei, prima di venire definitivamente archiviata per non essere proiettata mai più. Eppure, quel biglietto due per uno, Vincenzo Coppola lo considerava una conquista, un momento di svago e di piacere. E fu proprio guardando uno di quei film, solo e assorto in un cinema mezzo vuoto - quando ancora esisteva l'intervallo e l'omino che passava con le bomboniere e il Cornetto Algida - che il piccolo Vincenzo immaginò per la prima volta che da grande avrebbe fatto il regista. Strano mestiere per un ragazzino di provincia, un po' timido e introverso, che mamma e papà avrebbero voluto avvocato, dottore, o eventualmente professore.

Invece lei aveva già le idee chiare. 
«Il cinema era la mia grande passione. Sarebbe stato un peccato non coltivarla, in qualche forma. E per fortuna ci sono riuscito, anche se non proprio come avrei voluto».

In che senso?
«Da ragazzino sognavo il grande schermo, mi sentivo un po' come Totò, il bambino protagonista di Nuovo Cinema Paradiso; invece poi sono finito nel piccolo, di schermo, che però può ugualmente dare belle soddisfazioni. Ho lavorato per la Rai, per Teleoggi (poi Canale 9), mi sono divertito e ho dato sfogo alla creatività».

Partiamo dalla prima esperienza da regista.
«Cominciai girando una serie di documentari per Cocktail - un programma che produceva il centro Rai di Napoli per la neonata terza rete. Erano brevi, ma efficaci».

Che genere di documentari?
«Per il primo andai a Londra, alla National Gallery, dove inauguravano una mostra sul Seicento napoletano. Ricordo che si girava ancora su pellicole da sedici millimetri e poi si montava in moviola. Sembra preistoria, ma abbiamo lavorato una vita così».

Debutto in Rai, quindi.
«Sì, dove avrei continuato a lavorare bene, se non fossi stato perennemente inquieto. Amavo il mio mestiere, la Rai era una grande aspirazione, ma ero affascinato pure dalla radio. A 10 anni già ascoltavo Notturno italiano, uno dei programmi più longevi di Radio Rai: andava di notte - in onde medie - e io sempre lì, tutto orecchie».

Dalla televisione alla radio, quindi.
«Ero alla ricerca di un giusto compromesso. Anche perché un'altra mia grande passione, alla quale non intendevo rinunciare, era - ed è tutt'ora - l'elettronica».

Pure l'elettronica?
«La vita di paese, come la mia a Pompei, non offriva troppi svaghi. In realtà, non c'era mai niente da fare. Mi resi rapidamente conto che l'unica alternativa alla noia era coltivare le passioni». 

E a lei non mancavano.
«Proprio no. Andavo al cinema, o smontavo e rimontavo moto e motorini. Il mio, ma pure quelli degli amici. Anche quando non c'era niente da riparare, giusto per capire meglio il motore come fosse fatto. Finito il lavoro sulle due ruote, attaccavo gli elettrodomestici di mia madre e poi anche la radio di casa».

La smontava?
«Certo, ero bravissimo: dopo, la rimontavo perfettamente. Non avrei mai lasciato un apparecchio fuori uso. In ogni caso, smontando e rimontando, a 16 anni cominciai a collaborare con una radio libera di Pompei, dove facevo tutto: il tecnico e il regista. L'occasione per mettere insieme le mie due passioni».

E la televisione?
«Quella arrivò quando un amico mi disse che a Teleoggi cercavano un regista. Ricordo ancora il primo colloquio con la proprietaria, Carla Visone, che inizialmente fu un po' scettica».

Perché?
«Le sembravo troppo giovane, e non aveva tutti i torti, non è che avessi grande esperienza. Decise comunque di rischiare e io sbarcai in via Nicotera». 

Qui comincia l'avventura.
«Inizialmente, facevo solo regia, poi cominciai a scrivere anche qualche pezzo per il Tg, e alla fine feci partire la fantasia e iniziai a lavorare solo sui programmi».

Quali? 
«Penso al primo talk sportivo nella storia dell'emittenza locale. Si chiamava Tutti in campo, è lunedì - un successo strepitoso: lo conduceva Antonio Corbo che, in quegli anni, guidava la redazione napoletana del Corriere dello Sport. Ogni settimana, avevamo dieci ospiti diversi e tutti di alto livello. Pure Maradona».

Diego Armando.
«Era appena arrivato a Napoli, Corbo lo portò subito in trasmissione: si paralizzò la strada, venimmo letteralmente assaliti dai tifosi che non volevano andare via. Che ricordi straordinari. Ma la vera avventura cominciò alla metà degli anni '90».

Che cosa si inventò?
«Non so come, mi capitò tra le mani il Vernacoliere, un mensile di satira in dialetto toscano. Si accese la lampadina e pensai a un programma comico. Così, nacque Telegaribaldi».

Intuizione straordinaria.
«Volevo un programma che prendesse un po' in giro il nord, da qui il titolo, ma anche le nostre manie quotidiane. Mi ispirai a Quelli che... e a Emilio, una sitcom in onda su Italia Uno, che raccontava le vicende di una redazione sui generis formata da personaggi decisamente bizzarri». 

Un mix dal quale venne fuori un bell'esperimento.
«Quello che avevo in mente: una trasmissione - come dire? - sgangherata, molto improvvisata, e assolutamente esilarante. Non vorrei apparire superbo, ma Telegaribaldi ha segnato l'inizio della nuova comicità napoletana, ferma al cabaret anni '70: Lucia Cassini, i Sadici piangenti...».

Ancora oggi i suoi personaggi non si dimenticano.
«Sono tanti i comici di successo passati da Canale 9. Penso ad Alessandro Siani, Nello Iorio, Paolo Caiazzo, Maria Bolignano, Lello Musella...».

Un ultimo ricordo.
«I tre show al Palapartenope, a chiusura del programma: vendemmo 4mila biglietti a serata. Un trionfo. Una cosa irripetibile. Legata a un tempo che non c'è più». 
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