Le «braci» di Napoli
e lo scrittore esule
nei labirinti di Posillipo

Le «braci» di Napoli e lo scrittore esule nei labirinti di Posillipo
di Vittorio Del Tufo
Domenica 10 Ottobre 2021, 13:09 - Ultimo agg. 13 Ottobre, 06:00
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«L'uomo comprende il mondo un po' alla volta e poi muore»
(Sándor Márai, Le braci)

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«Napoli è la città della superstizione. Questa erbaccia in nessun altro posto abbonda così tanto, così copiosa e inestirpabile negli animi come nell'immaginazione dei napoletani. Dalla mattina alla sera la loro giornata è piena di superstizioni semplici e complicate. Hanno paura di tutto. E allo stesso tempo ridono di ciò di cui hanno paura».

Nel 1948 il grande scrittore ungherese Sándor Márai, fuggito dal suo paese oppresso dalla dominazione sovietica, si trasferì a Napoli lasciandosi stregare, fino all'annientamento, dal fascino di una città uscita a pezzi dalla guerra, e tuttavia capace «di affidarsi completamente ai miracoli», quasi che la fede nei miracoli ne rappresentasse la vera e più autentica essenza.

Márai era uno spirito inquieto. Un giorno anche lui - esattamente come il protagonista del suo romanzo napoletano, «Il sangue di San Gennaro» - smise di credere che vi fosse un futuro per chi, in quanto esule, ha smarrito la propria identità. E si tirò un colpo in fronte, nel febbraio del 1989, disponendo che le sue ceneri venissero disperse nell'Oceano Pacifico.

«Il sangue di San Gennaro» (uscito a Baden Baden nel 1957) è un romanzo largamente ambientato a Posillipo, in quella via Nicola Ricciardi, presso il Casale, dove l'autore de «Le braci» visse dal 1948 al 1952, prima di trasferirsi negli Stati Uniti. Un romanzo corale, che vede al centro della scena gli uomini, le donne e i bambini del borgo, con la loro miseria, il loro lerciume, la loro fatica di vivere e il loro orgoglio ancestrale di «aristocratici mancati»; e le interminabili chiacchiere, le liti «furibonde e teatrali». Anche i santi arcigni e polverosi, a volte ghignanti, che osservano i cittadini dietro le teche di vetro sono parte integrante dell'affresco di Sándor Márai. Lo scrittore ungherese dedicò il suo romanzo napoletano «a Pasqualino, perché aveva sei anni e ogni mattina portava giù l'immondizia; al pescatore monco, perché ammansiva il mare; e a santo Strato, perché proteggeva il palazzo e i malati».

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Strato, anzi Stratone, era un pretoriano dell'esercito di Diocleziano, che subì il martirio perché si rifiutò di perseguitare e massacrare i cristiani. Il culto di Santo Stratone (poi Santo Strato) fu introdotto a Napoli da una colonia greca proveniente da Nicomedia. La leggenda vuole che a fondare la chiesa dedicata al santo - nel lontano 1266, sui resti di un edificio romano - furono tre greci che racimolarono la somma necessaria esibendosi come giocolieri per le vie di Napoli! L'originaria cappella fu ampliata nel Cinquecento e alla fine del secolo divenne la parrocchia del borgo, punto di riferimento - allora come oggi - dell'intera comunità del Casale.

Il piccolo borgo di pescatori ha svolto per molto tempo, diligentemente, la funzione per la quale era stato fondato: difendere i suoi abitanti - con la benedizione di Santo Strato - dalle incursioni nemiche lungo la costa. Vi sono stradine cieche che conducono all'interno di piccoli cortili privati, dove il tempo sembra essersi fermato; ve ne sono altre che conducono all'ingresso di dimore da favola, come Villa Gemma, già appartenuta alla famiglia Pisanti. È un labirinto dove è piacevole perdersi: qui si può ritrovare l'anima dei vecchi fondaci dei quartieri popolari di Napoli. Condizione, come spiega bene lo storico dell'architettura Renato De Fusco nel libro «Posillipo», «resa però qui meno grave igienicamente dalla situazione orografica, che consente impreviste aperture sul paesaggio circostante e dalla limitata altezza delle case».

Come molti altri borghi della collina, anche il Casale rimase a lungo isolato dal resto della città. Nel periodo medievale i casali sulla collina di Posillipo erano ben quattro: Santo Strato (il più grande), Angari (Torre Ranieri), Megaglia (che corrisponde al punto dove ha inizio l'attuale via Ferdinando Russo) e Spollano erano anche giuridicamente uniti e formavano un unico e vasto villaggio.

Meno antico rispetto agli altri quattro casali, come si intuisce dal nome, è il casale di Villanova, che figura nella celebre pianta di Giovanni Carafa (duca di Noja) e si sviluppò sulla parte meno occidentale del colle, quella più vicina ai casali del Vomero. Fu il viceré Ramiro de Guzmán, duca di Medina de Las Torres, a realizzare nel 1643 le Rampe di Sant'Antonio, il primo vero collegamento della collina di Posillipo con la città bassa.

I rapporti tra il Casale e il mare (tra il villaggio collinare e il nucleo costiero Marechiaro-Gaiola) sono sempre stati molto stretti. Di fatto il Casale può essere considerato come l'estensione agricola di Marechiaro e Marechiaro come la Marina di Santo Strato. Per molto tempo, prima di essere inclusi nella cinta cittadina, i casali demaniali si autogovernarono come tanti comuni autonomi, retti amministrativamente da un gruppo di abitanti. Il villaggio di Santo Strato conserva la memoria di un antico Re del Casale, che vigilava sulle attività lavorative del borgo, prevalentemente rivolte all'agricoltura e alla pesca.

Ancora oggi molti uomini del Casale si chiamano Strato. Qui i contadini erano anche pescatori e i pescatori erano anche contadini. Lo spirito di appartenenza, da queste parti, è una cosa seria. Come giustamente annotò Pietro Treccagnoli nel suo libro «La pelle di Napoli», «se chiedete alle donne e agli anziani seduti sulla panchina a fianco alla cancellata esterna della chiesa, vi rispondono che sono tutti nati nel paese, così lo chiamano, il paese, che nulla ha a che vedere con la città, laggiù, lontana sotto il vulcano, e niente hanno a che spartire, loro, con i finti posillipini».

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Nel labirinto dove è bello smarrirsi lo scrittore esule cercò invece di ritrovare se stesso. Quella di Sándor Márai nella Posillipo più antica, la Posillipo del Casale, fu una lunga cerimonia laica di immersione nello spirito della città. Lo scrittore ungherese, evidentemente, immaginò che lo spirito della città transitasse per Posillipo, e Posillipo mise in scena, con le sue favole e le sue leggende, con i suoi diavoli e con i suoi incantesimi. Posillipo incrostata di sangue come il sangue di San Gennaro, il miracolo per eccellenza al quale si affidano i «napoletani che hanno paura di tutto» e di tutto ridono, soprattutto delle loro paure. Tra tutte le possibilità, quella «più verosimile» è proprio il miracolo, la misteriosa liquefazione dei sacri grumi. Perciò Márai decise di intitolare il suo libro napoletano «Il sangue di San Gennaro» (in Italia fu pubblicato da Adelphi nel 2010), anche se a fare da protagonista non è il santo martire e nemmeno la prodigiosa liquefazione del suo sangue, ma il sangue vivo degli scugnizzi, dei vinai, dei trippai, dei pescatori, degli spazzini e dei venditori di uova che componevano l'umanità dolente e solidale della Napoli del 1948. In quel sangue Marai vede una possibilità di redenzione, per l'Europa postbellica, per gli intellettuali esuli costretti a vagabondare per la terra, per se stesso. Il segno di una spiritualità antica, ancestrale, che forse può essere ancora recuperata nonostante gli orrori del mondo.

È un'illusione. L'uomo comprende il mondo un po' alla volta, e poi muore. Nel libro di Márai sarà una tromba d'aria a dare il senso di una sconfitta inappellabile, per i protagonisti, per gli esuli del mondo e, probabilmente, per lo scrittore stesso, che deciderà di uccidersi proprio come il protagonista del suo romanzo.

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Alla fine, rimarranno il Vesuvio, il mare, e per ultimo il vento.

Il vento che ammonisce tutti: «Li ho visti andare e venire, attraverso continenti e oceani, ma ho nascosto le tracce dei loro passi. Dove soffio io, non resta più nulla. Sono io che dico l'ultima parola. E poi verrà il silenzio».

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