La pizza è un cibo globale ma resta l'icona della napoletanità

La pizza è un cibo globale ma resta l'icona della napoletanità
di Luciano Pignataro
Venerdì 24 Giugno 2022, 07:00 - Ultimo agg. 25 Giugno, 09:26
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Una delle regole fondanti della comunicazione nell'era dei social è attaccare chi è più forte e famoso di te. Se ti risponde, hai vinto. Anche se ti fa una pezza, lui ha ragione e tu torto marcio. È questa la vera chiave per comprendere quello che sta accadendo da due giorni sui social culminato ieri sera nel confronto fra Gino Sorbillo, Ivano Veccia e Flavio Briatore nel salotto di Bruno Vespa.

I maghi dei like e dell'engagement lo sanno bene. Carlo Cracco modificò la ricetta dell'amatriciana provocando una reazione furibonda persino del Consiglio comunale di Amatrice e poi lanciò la sua pizza non pizza sfruttando, come un judoka, la forza della reazione di quanti lo attaccarono facendogli pubblicità. Briatore ha fatto lo stesso con la pizza napoletana, il brand più forte del cibo più cliccato al mondo, amplificato dal riconoscimento Unesco all'Arte del Pizzaiolo nel 2017, dalla espansione dello stile partenopeo fuori Napoli, in Italia e in tutto il mondo. Utilizzando i social di cui è un mago, o comunque consigliato da ottimi smanettoni, il Flavio nazionale, il Bullioneire come lo sfotte D'Agostino su Dagospia, vanta ben 1,2 milioni di follower su Instagram. Se analizziamo il suo video su Instagram da cui è nata la polemica, vediamo che la prima parte del discorso di Briatore è tesa a giustificare l'alto prezzo della pizza al patanegra in base alla qualità dei prodotti che usa. Ma, diciamoci la verità, che riscontro mediatico avrebbe avuto se si fosse limitato alla parte costruens? Ecco allora l'affondo contro quelli che fanno pagare la pizza 4 euro, «un mattone con un laghetto di pomodoro», insinuando che non hanno personale in regola o che sono evasori fiscali... Ed è su questo punto che si è scatenato il mondo della pizza napoletano, proprio come era avvenuto con Cracco. Briatore sa che la pizza è qualcosa di assolutamente intimo nella psicologia gastronomica della città e ha toccato le corde giuste per provocare il massimo della reazione alzando i toni in una intervista alla Zanzara due sere fa: la fanno meglio a Salerno, è più sottile, ha dichiarato. Peccato che le migliori pizzerie di Salerno siano di stile napoletano, ma questo è un dettaglio che non conta in una discussione del genere. Sui social, infatti, è assolutamente indifferente dire cose giuste o sbagliate, il mantra è il conseguimento dei numeri, il vecchio adagio «Purché se ne parli» diventa comandamento religioso. Vince non chi dice la cosa giusta ma chi prende più like cavalcando il sentiment virtuale del momento come il surfista vola sulle onde. Non a caso gli interlocutori più autorevoli di Briatore sono stati altri due pizzaioli maghi dei social: Gino Sorbillo, imbattibile su Facebook e su Instagram, quello che ha sdoganato la pizza napoletana nel virtuale, il primo pizzaiolo a essere imitato, e invidiato, per la sua capacità comunicativa che per la qualità della pizza. E, secondo, Enrico Porzio, eroe di Tik Tok che ha sfondato il milione di visualizzazioni prima con la recensione della pizza di Cracco e poi di quella di Briatore capovolgendo i termini: il brand Porzio aveva bisogno del brand Cracco e del brand Briatore per espandersi.

Anche in questo caso, risultato raggiunto.

Vista da Marte, la querelle dopo due anni di Covid e una guerra alle porte dell'Europa dovrebbe far rinchiudere in un manicomio tutti i protagonisti. E noi che commentiamo con loro. Ma, si sa, noi italiani amiamo il bello, l'inutile e siamo specialisti nelle beghe di campanile, eredi dei Comuni più che degli antichi romani come predicava, invano, la Buonanima. Immaginiamo infatti il marchese Incisa della Rocchetta, patròn del Sassicaia, uno dei vini più famosi d'Italia, venduto sui 200 e passa euro, attaccare una Cantina Sociale perché vende il suo prodotto a 3 euro accusandola di usare prodotti scarsi e di non aver in regola il personale. Impensabile, perché sarebbe una discussione senza senso.

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La discussione sul prezzo della pizza, nel mondo reale, non ha alcun senso, perché viene determinato dalle materie prime, dal fitto dei locali, dal costo del personale e dalla capacità di racconto che viene costruito. Nessuna bottiglia di vino al mondo, continuiamo per un momento il parallelo, può costare a chi la produce più di 25-30 euro, nel 90 per cento dei casi mai più di 5 euro. Eppure i prezzi arrivano alle stelle, anche migliaia di euro. Cosa li determina? Il racconto, l'emozione, la storia, le radici. La verità allora è che il prezzo lo determina l'eterna legge della domanda e dell'offerta. Vale per tutto, vale per la pizza. Un prodotto nato povero (disconosciuto e ignorato nei ricettari di Corrado, Cavalcanti, Jeanne Carola Francesconi) che adesso è proiettato come cibo interclassista e interetnico grazie al fatto che è possibile mangiarlo al massimo livello con un prezzo alla portata di tutti. Per due motivi strutturali: la capacità di spesa degli italiani dopo la crisi 2008-2009 è diminuita da 38mila a 31mila euro, il diverso modo di mangiare, meno formale e ingessato. Quindi con uno scontrino medio di 20 euro si può tornare anche quattro volte al mese in pizzeria, meno di due in trattoria, una in un ristorante di fascia media. Poi ci sono le eccezioni da un versante e dell'altro, dalla pizza al portafoglio a quella più costosa che, udite udite, non è neanche quella di Briatore ma di Ivano Veccia al tartufo bianco studiata con lo chef bistellato di Ischia Nino Di Costanzo: ben 70 euro. La pizza a New York di buona qualità parte da 15 dollari ma in generale il prezzo medio è sui 19 dollari. A Parigi da Peppe Pizzeria dai Fratelli Figurato a Madrid 9,90 euro, da 50 Kalò London di Ciro Salvo 9.95 sterline. Il prezzo è completamente diverso, ma tutte queste pizzerie sono accomunate da due cose. La prima è che fanno tutti grande qualità, la seconda è più importante, è che vicino alla loro pizza c'è la parola Napoli. 

 

Napoli come brand in una situazione che il Covid ha cambiato in maniera radicalmente nuova e inaspettata: secondo lo studio presentato ieri dal Cna al Pizza Village i dati sono ben chiari: l'analisi ha rilevato che le attività che producono e distribuiscono la pizza - dalle pizzerie alle rosticcerie passando per i locali di asporto e i ristoranti - indica che la Campania ha perso il 41.1% delle sue attività, passando così da 17.436 esercizi ai soli 10.263 perdendo ben 7.173 punti vendita e precipitando così dal gradino più alto della classifica delle regioni d'Italia. Leadership invece conquistata dalla Lombardia che oggi primeggia la graduatoria con 17.660 punti vendita con un incremento del +24,6% e 3.489 nuovi esercizi. Dunque, che conclusioni possiamo trarre? Queste: la pizza è fenomeno mondiale ed è ormai radicata su tutto il territorio nazionale, ma questa nuova situazione paradossalmente rafforza il brand napoletano perché un prodotto artigianale funziona se è identitario. Così facendo però la pizza cambia pelle e ci sarà sempre più spazio per le varianti, da quelle di Simone Padoan in Veneto alla Pizza Napoletana Contemporanea di Martucci, dalla pizza romana di Bonci alla catena italiana Berberè. Consoliamoci con il fatto che tutti puntano alla qualità diventando una risorsa per i piccoli produttori agricoli e gli artigiani del Gusto e che l'Italia, incredibile ma vero, continua ed essere una figata a tavola. Come finirà la querelle? All'italiana, fra tarallucci e vini: Briatore è già stato invitato dall'Avpn e siamo pronti a raccontare un quattro mani fra l'imprenditore piemontese e alcuni dei maestri della pizza napoletana. Perché la guerra conviene solo quando è un gioco, non quando diventa una cosa seria passando dal virtuale al reale. 

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