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Edith Bruck: «Nell'orrore di Auschwitz ho capito cos'è l'uomo, nel male e nel bene»

La scrittrice Edith Bruck: «Nell'orrore di Auschwitz ho capito cos'è l'uomo, nel male e nel bene»
La scrittrice Edith Bruck: «Nell'orrore di Auschwitz ho capito cos'è l'uomo, nel male e nel bene»
di Francesca Nunberg
Articolo riservato agli abbonati
Mercoledì 26 Gennaio 2022, 22:22 - Ultimo agg. : 27 Gennaio, 11:03
5 Minuti di Lettura

«È come ogni anno, ma quest’anno di più. Un interesse così per il Giorno della memoria, con tutti che mi chiamano, che chiedono perdono, è quasi imbarazzante. Ma forse questo 27 gennaio è così anche per il Covid, per l’inquietudine che c’è nell’aria, la paura. È un periodo brutto. Nascono nuovi fascismi, nuovi antisemitismi, ci sono i raduni sulla tomba di Mussolini, c’è chi invoca Hitler, quando ho visto Forza Nuova che manifestava con la bandiera nazista, ho sognato di morire soffocata da quella bandiera. Questa nuvola nera che avanza sull’Europa esprime il fallimento dell’uomo e della nostra società».

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Edith Bruck ha novant’anni e delle sue tante vite forse questa è una delle più tristi. «È troppo tardi - dice - Troppo tardi anche per la visita del Papa, ma è importante che sia arrivato...». La scrittrice ungherese, naturalizzata italiana e sopravvissuta, quando aveva 14 anni, a sei campi di concentramento, nella sua casa romana mostra la foto che la ritrae abbracciata al pontefice. «Francesco ha approvato la mia lettera a Dio, dice che Dio è una ricerca continua». Nella nuova prefazione di “Lettera alla madre”, uscito nel 1988 e ora in libreria per La nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi (che sta pubblicando tutta la sua opera), cita questa missiva contenuta ne “Il pane perduto”, finalista al premio Strega 2021. 

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Come la riscriverebbe oggi?

«È stata mia madre a ispirarmi la lettera a Dio. Lei gli parlava sempre e gli chiedeva tutto: il cappotto, le scarpe, la legna per la stufa. Io protestavo, le dicevo “smettila che non ti ascolta”, parla con noi invece».

Ha fatto pace con la sua memoria?

«Sì, ho capito dopo. Non poteva giocare con i figli, pettinare i miei capelli, si disperava per mettere insieme il pranzo con la cena, io la chiamavo la “regina degli stracci”, stava sempre seduta su uno sgabello a cucire. A noi femmine diceva: siete belle, ma tanto chi vi sposa? Io arrivavo al punto di andare nel bosco per accumulare freddo, tornavo congelata, ma sapevo che almeno mi avrebbe strusciato le mani per scaldarmi».

È stata lei a darle la forza per sopravvivere?

«Mia madre era severa, una moralista diremmo oggi, diceva se qualcuno bussa, aprite la porta, se c’è da mangiare per tre c’è anche per quattro, ma non c’era nemmeno per tre... Era una donna dalla cultura molto popolare, biblica direi. Mi ha allenato alla fatica, ero abituata a sentirmi dire sempre no. D’estate a 11 anni facevo la bracciante e raccoglievo granturco e patate nei campi. Lei raccoglieva i meloni, con grande fatica, le faceva molto male la testa a stare così piegata, ma poi li mangiavamo col pane, erano buoni. Oggi non è più buono niente».

Quanto si porta dietro di quello che ha vissuto?

«Tutto, sia dei campi che dell’infanzia. Per questo dopo la guerra ho cominciato a dire, scrivere, raccontare. La mia vita è stata la mia laurea. Ad Auschwitz ho imparato tutto dell’essere umano, perfino il bene. Il cuoco di Dachau che mi ha chiesto come mi chiamavo, il soldato che mi ha gettato una gavetta col fondo di marmellata da leccare... Un gesto umano in un luogo disumano. Non si può capire oggi, ma lì c’erano solo botte, morte, freddo e fame».

Ma i ragazzi a cui parla nelle scuole capiscono?

«Sì, loro vogliono sapere, hanno imparato poco e male, perché questo immenso disastro umano è stato sempre sminuito e banalizzato. Ascoltano con gli occhi spalancati, piangono, mi scrivono centinaia di lettere, penso che ci farò un libro. A Monteverde un giorno in una scuola c’erano 500 ragazzi, nell’ultima fila alcuni avevano le cuffie. Ho detto: io non parlo di mia madre bruciata se voi ascoltate la musica. Cinque sono usciti, 495 sono rimasti».

Perché l'hanno spostata in sei lager diversi?

«Auschwitz era un campo di annientamento, e anche Dachau, gli altri come Kaufering o Landsberg erano sottocampi di lavoro. Non tutti sono stati liberati il 27 gennaio, alcuni addirittura l’8 maggio. Quando stava arrivando l’armata americana, io e mia sorella eravamo a Bergen-Belsen e ci hanno fatto spostare a piedi fino in Sassonia, la marcia della morte, 500 chilometri. Mangiavamo la cacca secca delle vacche, la corteccia degli alberi, i rifiuti, metà di noi sono morti per strada. Arrivati a Christianstadt ci hanno riportato indietro...».

Siete tornati di nuovo a Bergen-Belsen?

«Sì, a quel punto da mille eravamo rimasti in 40, forse 50. Io avevo i blocchi di ghiaccio sotto gli zoccoli... Il campo degli uomini era letteralmente ricoperto di cadaveri scheletrici, una visione che avrò per tutta la vita. Ci hanno dato due stracci e ci hanno detto di ripulire, con la promessa di una doppia zuppa. Arrotolammo gli stracci attorno alle caviglie dei cadaveri portandoli nella “tenda della morte”, una piramide immensa di cadaveri. Due di loro erano vivi, mi hanno detto: non ci crederanno, racconta anche per noi».

E quando è stata per lei la liberazione?

«Il 15 aprile sono arrivati gli americani. Ci hanno detto di spogliarci per la disinfestazione e per la prima volta mi sono vergognata, non mi era mai successo con i tedeschi, era il primo sentimento umano. Ci hanno portato all’ospedale militare e ci davano da mangiare ogni giorno 20 grammi in più, curandoci come i neonati. Mentre i russi ad Auschwitz hanno spalancato le porte delle cucine e decine di persone sono morte con la testa nello zucchero, per troppo cibo. C’è voluta anche la fortuna di essere liberati da quelli giusti». 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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