C'era una volta Leone: l'epopea di Sergio a trent'anni dalla morte

C'era una volta Leone: l'epopea di Sergio a trent'anni dalla morte
di Marco Ciriello
Sabato 27 Aprile 2019, 12:00 - Ultimo agg. 12:04
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Siamo dalla parti del mito, un Omero che genera pistoleri e gangster, ecco Sergio Leone, per brevità regista. Uno che nella Roma degli anni Quaranta guardando in fondo alla ripida scalinata di viale Glorioso, scendendo a capofitto, vedeva il vecchio West, cavalli dove c'erano carri armati americani, e messicani in fuga dove sbaraccavano i tedeschi. Un visionario, certo. Uno che faceva film su cose che non ci sono più. Favola e Storia. Fantasia e realismo, che poi il compagno di scuola ritrovato avrebbe cucito in note, quel gran genio del suo amico: Ennio Morricone. Intorno il meglio, una sorta di galácticos del cinema artigianale, da Tonino Delli Colli a Luciano Vincenzoni, un cinema grandioso al quale l'Italia stava stretta, e serviva solo come teatro di posa, e che avrebbe fatto scomodare John Ford, Stanley Kubrick, Billy Wilder, e tanti altri minori. Sergio Leone (3/1/192930/4/1989) è tutto vertigine, dal dettaglio al campo largo, non c'è mai un piccolo respiro, una micragnosità intellettuale, ma sempre una complessità che travolge, straripante nel corpo e nella mente, fluttuante tra cinema e realtà, e che fa pensare a Lev Tolstoj ed Ernest Hemingway passando per Victor Hugo e arrivando fino a Raymond Chandler, il suo è un cinema dove: «Il desiderio di vendetta è infantile e vano, e chi vuole intraprendere la strada di imparare a uccidere, giunto alla fine del cammino, ha solo imparato a morire».
 
Chi lo ha visto muoversi per Sperlonga in un vecchio filmato Rai mentre il principe dell'oralità, l'imperatore del racconto, lo scrittore Giancarlo Fusco già in là con gli anni e il consumo di sé lo intervista: non potrà non notare che Sergio Leone trasuda epica, tra uno sguardo e un passo, un respiro e una descrizione, appoggiando anche dentro la vecchia tivù la sua forza, che a noi arriva intatta. È un incontro tra aedi. E guardandoli si capisce perché oggi tutto quello è impossibile. Un mondo perduto d'un mondo perduto, una palla di vetro d'una palla di vetro, dove i film di Sergio Leone trent'anni dopo la sua morte sono gli irreali fiocchi di neve che appaiono rovesciando la palla. E dentro quella palla ci sono i giustizieri di Leone, degli eroi «cattivi» carichi di valori, soprattutto quello dell'amicizia, che sembra l'ultima ideologia rimasta insieme con le pistole, dei fuori posto disposti a tutto pur di riaggiustare un po' le cose, attraverso il loro individualismo ci sarà una comunità. È il prezzo da pagare per la nascita dell'umanesimo.

Il cinema di Leone è zeppo di pietas, e di grandi gesti che interrompono violenze, rapine, soprusi, giusto un attimo per creare i presupposti per un mondo giusto, valga per tutti: il ponte fatto saltare dai due pistoleri-banditi Clint Eastwood ed Eli Wallach in «Il buono, il brutto, il cattivo» che interrompe la sequenza di morti. Perché sullo sfondo c'è la fine: sia per la trilogia del dollaro («Per un pugno di dollari», «Per qualche dollaro in più», «Il buono il brutto e il cattivo») che per quella del tempo («C'era una volta il West», «Giù la testa», «C'era una volta in America»). Dove finisce il West comincia la nuova nazione, e con la nuova nazione tutto è perduto, e tutti sono fantasmi.

A Leone piace giocare col tempo, con i piani temporali, la vera frontiera che racconta è quella che divide la nostalgia, che sia uno sparo o il passaggio della ferrovia, ogni sua storia è una moneta, testa e croce, che volteggia e volteggiando produce sentimenti, sullo schermo e intorno. Man mano che la sua cinematografia evolve, il suo mondo si allarga, vivi e morti convivono, interni ed esterni si confondono, fino a formare il mondo perduto milioni di volte e milioni di volte ritrovato grazie alla magia del suo cinema, l'orizzontalità delle facce ferme nei nostri ricordi, le battute che risentono dell'ironia romana, dell'indolenza come dell'irrisione, del cinismo come di una pietà precattolica diventano un Hagakure-Leonesco che salva in ogni situazione, perché il suo cinema della frontiera è rimasto a cavallo tra nicchia e popolarità, rompendo ogni schema, scavalcando ogni muro, da Trastevere ai Parioli, da Milano a Palermo, da Tokyo a New York, da Buenos Aires a Toronto, e via così, cavalcando dietro pistoleri cialtroni, in cerca del tesoro come pirati di Robert Louis Stevenson.

Leone era un ottimista informato sui fatti, rude quanto basta a un generale sornione che ha un suo modo di vedere le cose, che sa cosa vuole e come arrivarci, capace di rifiutare la «riduzione» cinematografica del «Padrino» per andare oltre gli spaghetti. Anche perché ogni suo film è stato un andare oltre, se stesso e gli altri, stupendo e incassando, incassando e rilanciando, rilanciando e sognando sempre in grande, fino all'ultimo progetto sull'assedio di Leningrado, ispirato al libro di Harrison Salisbury, «The 900 days: the siege of Leningrad».

E intorno un girotondo di amicizie, coppie che si tradiscono e si riprendono, alleanze da far invidia alle correnti della vecchia Dc, sempre con una vena di ironia: da Eastwood e Gianmaria Volonté, da Eastwood e Wallach e poi Lee Van Cleef per tornare a Wallach, da Jason Robards a Charles Bronson, da Rod Steiger a James Coburn, da Robert De Niro a James Woods (ho usato gli attori e non i personaggi, per fare una piccola mappa dell'internazionalismo cinematografico di Leone, e si potrebbe continuare con i cattivi, con i minori, e non si finirebbe mai perché nei suoi film c'è il nostro mondo perduto, che poi non era proprio nostro lo è diventato a forza di guardarli attraverso i suoi occhi figli di un regista del «muto», della guerra e dei quadri di Velázquez), e poi, su tutti, c'è Claudia Cardinale/Jill McBain. La bionda che accompagna il cambiamento. È lei che ci sorride e si porta dentro Sergio Leone, che fa venire giù i muri, che incarna le contraddizioni del futuro, e che vince sulla morte. Un sogno dentro a un sogno.
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