Arcade Fire, il pop come patchwork

Win Butler, frontaman della band canadese degli Arcade Fire
Win Butler, frontaman della band canadese degli Arcade Fire
di Federico Vacalebre
Domenica 3 Novembre 2013, 17:39 - Ultimo agg. 17:47
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Nulla di strano che un gruppo che ha esordito (nel 2004) con un album intitolato Funeral (miglior debutto degli Anni Zero per Rolling Stone) continui a parlare di morte, perdita, memoria, magari ricorrendo al mito di Orfeo ed ai fotogrammi dell’Orfeo nero, magari rievocando quel mito fin dalla copertina con una statua di Rodin.



Nulla di strano che la stessa band anticipi il suo nuovo album su YouTube: oggi più che vendere dischi importa conquistare la centralità della scena massmediatica e gli Arcade Fire di «Reflektor» ci sono riusciti decisamente, sperando di poter monetizzare al più presto l’esposizione ottenuta.



Nulla nemmeno di nuovo, nel calderone sonoro della band canadese, che al fido Markus Dravs affiancano in cabina di produzione anche quel James Murphy già responsabile dell’appeal dei Lcd Sound System (e di un cameo quasi segreto di Bowie ai cori). Win Butler, sua moglie Régine Chassagne (abbastanza defilata, forse troppo) & Co continuano a (con)fondere il meglio ed il peggio sonico nello stesso pezzo: «We exist» guarda a «Radio Clash», come però se quell’inno l’avessero inciso i Clash dell’aborto «Cut the crap»; mentre la title track, tanto per fare un altro esempio, si muove tra i primi Talkin’ Heads ed i Duran Duran (sigh!).



Visto che al revival del peggio non c’è mai limite, il gruppo riesce a rievocare persino gli A-Ha (risigh!) nel suo patchwork di electrorevival new wave, dance, pop e rock spruzzati di ritmi africani e caraibici (molti recensori si soffermano su presunte influenze calienti, ma è un abbaglio-suggerimento dell’ufficio stampa, appena una spruzzatina di ritmo esotico, nulla di sostanziale).



E nel crogiuolo finiscono anche: Daft Punk e Spandau Ballet, Roxy Music e New Order, reggae bianco e funky slavato, Smiths e Goldfrapp... Il rischio, già sfiorato in passato dell’overdose epicheggiante, dell’atteggiamento self- indulgent è più evidente che mai, anche sei i produttori cercando di confondere le acque come possono. Il punk come la scelta digitale qui sono meri echi stilistici, delle sottoculture originali non sopravvive niente.



Le due versioni di «Here comes the night time» sono però singoloni vincenti ed alieni, sospesi tra rock e decadance bowiana, mentre i testi del disco, oltre allo sguardo indietro di Orfeo vero Euridice, si pongono domande più o meno esistenziali («se non c’è musica nel paradiso che senso ha» si chiede Butler nella già citata chicca «Here comes the night time»), esplorano il mondo delle immagini «Porno» e quello del senso del rock and roll nella web age («Normal person», tra propensioni punk e rumore bianco nipote da nipotini nerd dei Velvet Underground domanda «Ti piace il rock’n’roll?» e si risponde «Perché io non saprei»).
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